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L'apparenza dell'assenza. Noi, Basilico ed il Covid-19.

date » 03-05-2020

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paesaggi_2.1.jpgPannello di fotografie di Gabriele Basilico, esposto al Palazzo delle Esposizioni

L’apparenza dell’assenza. Noi, Basilico ed il Covid-19.

Le città deserte, le città d’arte viste come mai si erano potute vedere, ma soprattutto le nostre strade vuote, le strade di ogni giorno, di quartieri qualsiasi, di serrande abbassate, sono le immagini della quarantena che si parano davanti al nostro sguardo ossessivamente, sia se camminiamo per fare la spesa o guardiamo fuori affacciati alla finestra, sia quando per consolarci dalla solitudine ci rivolgiamo allo schermo dello smartphone, alla moltiplicazione delle strade vuote sui social, ai visi deformati dalla fotocamera frontale nelle videochiamate, alle notizie delle morti.

Quel po’ di vita collettiva, (ma sarà stato veramente così?) rappresentata dalle esibizioni canore dai balconi in cui, per una sorta di confusione cromatica, si era associata la speranza di volare nel Blu dipinto di blu ad Azzurro, che è una storia dove il treno dei desideri all’incontrario va, si è dissolta.

E’ rimasta, sui balconi, qualche annoiata bandiera e strade vuote, ma che vuote non sono.

La sospensione, tra l’apparenza dell’assenza e i segni che indicano una presenza, si rivela attraverso e soprattutto a causa della fissità coatta: non ci si può muovere, se non per pochi metri intorno a casa, non c’è itinerario, non c’è una meta fisica da raggiungere, non c’è storia, non c’è film, c’è l’immagine fissa dello sguardo, come l’occhio del fotografo che si posa su strade consuete, rivelandone particolari fino ad allora rimasti nascosti o visioni d’insieme da prospettive prima impossibili, si pensi per questo anche alle panoramiche dalle terrazze condominiali.

Per orientarsi, per cercare una chiave di lettura e cercare un confronto e forse un po’ di conforto per l’animo in subbuglio per queste novità della consuetudine, per questa straordinarietà dell’ordinario, per questa apparenza dell’assenza, bisognerà attendere la riapertura della mostra “Metropoli”, 250 fotografie di Gabriele Basilico (Milano. 1944 – 2013), al Palazzo delle Esposizioni di Roma
L’iniziativa è programmata fino al 2 giugno e forse si farà a tempo a visitarla. Altrimenti ci si potrà consolare col catalogo, ma sarà una magra consolazione perché l’immersione visiva, che consentono le gigantografie, non può essere restituita in nessun altro modo.

Ogni fotografia di Gabriele Basilico, non è una immagine a sé, ogni fotografia di Gabriele Basilico è il brano di una lunga storia, la storia della sua ricerca ossessiva sulla città. Ricerca che è stata definita, sembra da lui stesso un anno prima della sua morte, come frutto della sua passione bulimica per il cemento, ma ad osservare l’intero corpus delle fotografie della mostra, sembra che la passione bulimica sia riferibile ad una ricerca di significato attraverso l’esclusione dall’inquadratura della presenza umana. Una ricerca di significato che concentra l’osservazione principalmente sulla stratificazione dei segni del paesaggio urbano.

Basilico appartiene alla generazione fotografica di Luigi Ghirri, di Mimmo Jodice, di Guido Guidi e di coloro che hanno dato vita al progetto Viaggio in Italia (1984), col contributo letterario di Gianni Celati. Loro tutti erano mossi dall’intenzione di ricomporre l’immagine di un luogo, sia dal punto di vista antropologico che geografico, trasformando “il viaggio in ricerca e possibilità di attivare una conoscenza che sia avventura del pensiero e dello sguardo”.
Già da quel viaggio in Italia Basilico si discosta dai suoi colleghi, scartando l’uso del colore, del piccolo formato, i richiami alla pop art, l’esaltazione del banale, l’escamotage del mosso, ma si concentra sul bianco e nero, sul grande formato, contribuendo con immagini di una Milano spettrale.

Qualcuno ha scritto che Basilico ricerchi in ogni città la sua Milano, forse è vero.

Poco sopra ho affermato che ogni fotografia di Basilico è il brano di una lunga storia, ma al tempo stesso si può affermare che ogni sua singola fotografia sia un lungo racconto.
Non è un gioco di parole perché se è vero che il susseguirsi di singole immagini delle metropoli, finiscono per comporre il grande mosaico della “metropoli”, è altrettanto vero che per il modus operandi di Basilico, l’uso di una fotocamera a banco ottico, che deve essere necessariamente posizionata su un treppiede, l’uso di pellicole a lastra delle dimensioni di (10 x 12) centimetri che garantiscono un dettaglio microscopico, l’uso di tempi lunghi di esposizione per garantirsi il massimo di profondità di campo, consentono la realizzazione di ingrandimenti dove far scivolare lo sguardo dell’osservatore, lungo itinerari arbitrari e puramente soggettivi. Capire l’immagine nel suo complesso, con i suoi punti di fuga, centrali o laterali (non dimentichiamo che Basilico è un architetto) non è difficile, si entra facilmente in quello spazio, ma è quando ci si trova lì in mezzo che si comincia ad essere spaesati e osservando quei luoghi dell’assenza si comincia a domandare a noi stessi, osservatori, quali vite si consumino dietro le tendine di una finestra dell’ennesimo piano di un grattacielo in terza fila o se ci sia una famiglia a cena nell’appartamento con la finestra illuminata di un palazzo in una periferia qualsiasi e ci si domanderà dove sono andate le automobili che hanno percorso le strade in fondo ai canyon urbani. Perché il banco ottico permette di restituire immagini così ricche di dettagli che neanche il fotografo ha potuto notare al momento della ripresa dove tra l’altro l’immagine, sul vetro smerigliato, gli appare capovolta rispetto alla realtà.
There’s more to the picture than meets the eye, cantava Neil Young e da qualche anno il neon con quella frase illumina una parete grigia del MAXXI di Roma.

Il percorso espositivo della rassegna si articola in cinque grandi capitoli: “Milano. Ritratti di fabbriche 1978-1980”, il primo importante progetto realizzato da Basilico; le “Sezioni del paesaggio italiano”, un’indagine sul nostro Paese suddiviso in sei itinerari realizzata nel 1996 in collaborazione con Stefano Boeri e presentata alla Biennale Architettura di Venezia; "Beirut", due campagne fotografiche per la prima volta esposte insieme, realizzate nel 1991 in bianco e nero e nel 2011 a colori, la prima alla fine di una lunga guerra durata oltre quindici anni, la seconda per raccontarne la ricostruzione; “le città del mondo”, un viaggio nel tempo e nei luoghi da Palermo, Bari, Napoli, Genova e Milano sino a Istanbul, Gerusalemme, Shanghai, Mosca, New York, Rio de Janeiro e molte altre ancora; infine “Roma”, la città nella quale Basilico ha lavorato a più riprese, sviluppando progetti sempre diversi fino al 2010, in occasione di una stimolante quanto impegnativa messa a confronto tra la città contemporanea e le settecentesche incisioni di Giovambattista Piranesi.

Se è vero che Basilico ricerchi in tutte le città Milano, se è vero che nelle 250 stampe c’è quell’elemento comune che si sussume nel titolo Metropoli, è pur vero che Roma si differenzia prepotentemente dalla “Milano in ogni città”, perché la sua storia è insopprimibile e lo è altrettanto iconograficamente, non solo nelle fotografie in cui Basilico si misura con le visioni del Piranesi, ma anche quando egli affronta il massiccio e geometrico razionalismo architettonico.

Più che una immagine specifica, in questa mostra, c’è un pannello, anzi più d’uno, sono i pannelli delle “Sezioni del paesaggio italiano”, che ci riguardano come osservatori da quarantena, dove l’autore fotografa una moltitudine di edifici solitari, di villette, di capannoni, di centri commerciali, di palazzine, di box, di officine. “Tutte costruzioni modeste, sparse nel paesaggio in modo scomposto, collegate artificialmente da segnaletiche invadenti, tutti frammenti della nostra società e della nostra economia: la famiglia, la piccola impresa, la distribuzione, il negozio, il club, il deposito. Un pulviscolo di manufatti che, specchio dello stato del nostro costume e del nostro modo di produrre, sono cresciuti nell’indifferenza della politica e dell’architettura colta, giungendo letteralmente a scompaginare l’aspetto e la natura del territorio italiano, da nord a sud e in ogni regione”.

Speriamo di poter risalire le scale del Palazzo delle Esposizioni in tempo per ritrovarci davanti a quei pannelli che ci faranno riflettere, mostrandoci amaramente un altro genere di lockdown, che era qui prima del Covid-19 e che sarà qui anche oltre la pandemia.

Roma,21/04/2020

Roberto Cavallini

Con il titolo La Poesia del Cemento è stato pubblicato in Succedeoggi al seguente link: http://www.succedeoggi.it/2020/04/gabriele-basilico-la-poesia-del-cemento/

Cronache dal Balcone - 25 aprile 2020. dalle ore 14,45 alle ore 15,05

date » 03-05-2020

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trittico_dal_balcone_25_apr2020.jpg


Sabato 25 aprile 2020. Dalle ore 14,45 alle ore 15,05


Mentre sto friggendo pesci surgelati e impanati, che sono un cibo da quarantena dopo che ti sei stufato ogni giorno di pensare in anticipo a cosa preparare per pranzo per mangiare sano, e hai aperto la finestra della cucina per evitare che tutta casa si impregni dell’odore di fitto, sale, dalla terrazza del primo piano, una Bella Ciao cantata con intonazione incerta da una flebile vocina accompagnata da un banjo.

I giovincelli del primo piano con quelle espressioni da Spritz Aperol, evidentemente contano tra i loro membri una timida cantante, un po’ Manu Chao e un po’ scuola popolare di musica che, nell’assoluto silenzio della strada, fa tenerezza e fa piacere.

Mi affaccio per vedere la scena, ma lo spettacolo finisce quasi subito, i nananà sostituiscono le parole, le sigarette sono mozziconi in un portacenere stracolmo e…tutti dentro.
Torno alle croccole.
L’appuntamento canoro ufficiale dell’ANPI è per le 15, tutti a cantare Bella Ciao dai balconi. Anch’io sono presente, seduto su una vecchia sedia da regista a prendere il sole mentre parlo al telefono.
Sono le 15 in punto, parte timidamente un’anziana signora dalla finestra di un palazzo alla mia destra, riparata da una tenda e dalla bandiera che non ha il coraggio di sventolare, nessun’altra voce si leva e allora sento in me il dovere e la responsabilità di dar vigore alla resistenza canora, saluto l’interlocutrice telefonica e con una voce tenorile sempre più forte, da far invidia a Pavarotti e sconosciuta anche a me stesso, intono Bella Ciao.
Sono orgoglioso della mia potenza vocale, la strada rimbomba di bella ciao, ciao, ciao, da un balcone alla mia sinistra si affaccia una coppia con chitarra, dai terrazzi condominiali di fronte altre teste spuntano, la signora del secondo piano esce in balcone ma si sporge con misura, qualche altra voce si aggiunge alla mia, trascino la resistenza canora, all’incrocio tra via Duchessa di Galliera e via di Val Tellina, ma arrivato a “questo è il fiore del partigiano” mi sento un groppo in gola, non ce la faccio più, Pavarotti non c’è più, rientro in casa, mi vergogno da morire, anche le altre voci si spengono.
Tutto finito? Così, in un niente, dopo neanche tre strofe?
Neanche per sogno, dalla stradina accanto, un gruppo di giovani voci femminili, chiare, forti, intonate, accompagnate da una chitarra dal ritmo sicuro, raccoglie il fiore del partigiano, la resistenza continua.

Roberto Cavallini

Questa cronaca dal balcone è stata pubblicata su Succedeoggi al seguente link: http://www.succedeoggi.it/2020/04/bella-ciao-al-balcone/

Cronache dal Balcone - 19 aprile 2020, dalle ore 13,50 alle ore 14,05

date » 19-04-2020

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no_balcone_web.jpg

Due bandiere annoiate pendono dal balcone di un palazzo a sinistra, un’altra, sul balcone di un palazzo un po’ più in là, sventola con poca convinzione.
Un vecchio con la mascherina mal messa cammina a stento appoggiandosi al bastone, una vecchia, anche lei con la mascherina cammina a piccoli passi sull’altro marciapiede.
Dal piano di sotto arrivano, odori di bagnoschiuma e di soffritto, mentre da un balcone, aldilà della strada, una coppia di anziani sistema lo sportello di un mobiletto grigio di metallo, da esterni. Mi ricordo che li notai una quindicina di anni fa’ quando tornai ad abitare in questa casa, erano sempre sullo stesso balcone che sistemavano le piante. Una pancia di sostanza lui ed una procacità agée lei, mi venne da pensare che si amassero. Mi colpì il loro aspetto, li vedevo bene a far parte di un pubblico televisivo.
Ora la pancia ha perso la sua autorevolezza e la procacità di lei si è trasformata in un tutto tondo. E’ lui che, a voce alta, dà ordini su come procedere, ma la sistemazione dello sportello si conclude in un clima di collaborazione, i due sono anche d’accordo su dove sistemare un vaso di fiori.
Il negozio del bangla è ancora aperto e il proprietario, con mascherina azzurra e guanti bianchi, sta a braccia conserte poggiate sulla pancia, in mezzo al marciapiede ricoperto di cicche, da qui non le vedo ovviamente, ma quando passo lì davanti noto il tappeto giallino. E’ una persona gentile, una volta mi ha aspettato per lasciarmi il posto dove parcheggiare la macchina.
E’ primavera, si sta bene in balcone in maniche di camicia, il cielo però è autunnale, tutto è grigio.
Da qualche finestra aperta arrivano suoni, parole, voci. Passa una donna col cagnolino e come tradizione vuole, i due si assomigliano.
Passa l’autobus di corsa, non rispetta il limite imposto dei 30 kilometri orari ed il palazzo trema, non si ferma neanche alla fermata, nessuno vuole scendere, nessuno vuole salire. Ora il bangla ha chiuso, i due vecchi ce l’hanno fatta a girare l’angolo, la coppia del balcone è rientrata, rientro anch’io, fuori è solo grigio.

Roberto Cavallini

Correva l'anno 1983...

date » 21-12-2019 17:52

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trittico_3_per_sito.jpgtrittico di fotomontaggi analogici, Correva l'anno 1983,,, (1983 - 2019)


Correva l’anno 1983…

e nella notte tra il 31 agosto e l’1 settembre, i sovietici abbatterono, credendo che fosse un velivolo spia americano, un Boeing 747 delle linee aeree coreane, uccidendo 269 persone a bordo.
Qualche tempo addietro, la sera del 23 marzo 1983, il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan aveva pronunciato un discorso nel quale definiva l'Unione Sovietica, "l'impero del male", annunciando i suoi piani di "Guerre Stellari" per la realizzazione di un sistema di difesa strategico.
La sera del 5 settembre, Reagan, definì l’abbattimento del Boeing un massacro e un crimine contro l’umanità.
Il 22 e 23 ottobre due milioni di cittadini europei manifestarono contro l’imminente schieramento dei missili a medio raggio Cruise e Pershing II, in Europa.

Prima di photoshop
Allora facevo il fotografo per varie testate giornalistiche della sinistra (seguendo la prassi: scatta - sviluppa e stampa - corri in redazione), fui contattato da un giovane Paolo Mondani (allora era del PDUP, mentre ora fa giornalismo d’inchiesta per Report della Rai) per inventare una campagna fotografica. Si decise per una serie di cartoline postali da spedire con tanto di francobollo, in tutto il mondo, per la pace e contro l’invasione dei missili americani che sarebbero stati posizionati sul territorio nazionale in previsione di un evento bellico.
Andammo in giro per Roma con un missile di cartone alto due metri posizionandolo nei luoghi più rappresentativi della città, ma uscirono fuori delle fotografie patetiche; un missile di cartone, mezzo sbilenco, era ridicolo, non era un’invasione.

Così pensai a dei fotomontaggi, dall’atmosfera vagamente distopica.
Andai in un negozio di giocattoli e comprai una scatola di missili da montare.
Fotografai i mezzi missili, senza colorarli, tanto le foto sarebbero state in B/N.
Scelsi le inquadrature di Roma che mi sembravano più adatte e le stampai nel formato 24x30 centimetri, su carta Speed, vista l’urgenza.
Stampai le foto dei missili calcolando la misura di dove li avrei dovuti incollare. Li incollai con la "Coccoina", quello era un copia e incolla vero, mica come quello fatto con photoshop e ad operazione conclusa, rifotografai le foto dei “capolavori”.
Una mascheratina, in sede di stampa finale, per aumentare il senso di distopia e le immagini per le cartoline erano pronte.

Non credo che siano mai arrivate in tutto il mondo, ma sicuramente furono distribuite come volantini alle manifestazioni per la pace.

Roberto Cavallini, 1983 - 2019

IL PUNTO DI PARTENZA E' FERMATI

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io_sechi_revisited.jpgfotografia di Sergio Sechi ( è lui che è arrivato verso le sette, alla fine della performance)marassi_2.jpgfotografia di Marco Marassi che ha posto questa didascalia, pubblicandola su FB: Bonus Track: Cavallini in BN (ha un non so cosa di Eugenio Scalfari).

Il punto di partenza è fermati

La prima volta che andai a piazza Vittorio fu con mia nonna, nei primi anni ’50. Andammo al mercato perché nonna doveva comperare chissà che cosa. Andavo spesso al mercato con nonna, molto più frequentemente a Sanco Simato, come diceva lei, a Trastevere, vicino a casa sua perché lei abitava alla Lungara. Anni più tardi leggendo la targa, scoprii che quella piazza di Trastevere era ed è San Cosimato.
Sono stato, sempre in tempi remoti, anche da MAS, i Magazzini Allo Statuto, dove c’era un bar all’interno, al mezzanino e mi sembrava una cosa di gran lusso. Un bar all’interno di un grande negozio non me lo ricordo neanche a La Rinascente, che però mi piaceva di più.
Mas distava pochi metri da piazza Vittorio.
Mas ora non c’è più, non c’è neanche il mercato che è stato spostato al chiuso alcuni anni fa’ e tra via Conte Verde e via Emanuele Filiberto quei palazzi rimasti tanti anni semi diroccati sono stati ricostruiti richiamando lo stile della piazza e mantenendo nella loro struttura i portici.
Piazza Vittorio ha un perimetro di circa un kilometro. Un kilometro quasi ininterrotto di portici sotto i quali cammina, vive e lavora un’umanità varia, in questa varietà sono comprese etnie di mezzo mondo, oltre ai romani dell’Esquilino e ai romani del centro storico e a quelli di vattelappesca, ai turisti, ai flaneur, ai disoccupati ed ai lavoratori e agli studenti che sono solo stranieri, perché i giovani a piazza Vittorio sono prevalentemente stranieri e sono di tutti i colori e tutti camminano, vanno diretti da qualche parte, tranne i flaneur, che però sembrano poco romantici e più dei perditempo, alcuni hanno perso oltre al tempo anche la strada, ma i portici sono una sicurezza.

Sotto quei portici siamo stati collocati anche noi, una trentina di performer, dalla nostra esuberante capobanda Barbara Lalle, sotto l’occhio fotografico e vigile di Marco Marassi per dare vita a Punto di Partenza, una performance partecipativa, organizzata appunto, da Lalle e Marassi, con la curatela di Roberta Melasecca e il progetto grafico di Alessandro Arrigo che ha pensato bene di elaborare un cartello di invito con su scritto, tra il lusco e il brusco dei marroncini, Fermati, parliamo. Un cartello che ogni performer dovrà usare come strumento di invito.

Sono le quattro del pomeriggio di un sabato di fine ottobre. Sistemo le due sedie da regista in posizione angolare, sotto uno dei portici vicino a via Conte Verde e attendo che qualcuno si sieda vedendo il cartello esposto che invita a fermarsi e a parlare.

Dopo una decina di minuti, lo sguardo incuriosito di una miope si indirizza sul cartello che porto appeso, con una stampella, al colletto della camicia. La stampella me l’ha regalata il gestore cinese del negozio di fronte al quale sono seduto. Al mio invito di accomodarsi, Susanna, ricercatrice dell’istituto superiore di sanità in pensione, che vezzosamente, ma anche incongruamente, visto il suo tailleur di tweed, un po’ troppo pesante per la giornata quasi estiva di ottobre, indossa un braccialetto d’oro alla caviglia, sotto le calze. Abita in zona e ricorda che andava a piedi all’università e che durante le inchieste sulla terra dei fuochi mi confida: “sa quante pressioni abbiamo ricevuto per…ma noi facevamo ricerca scientifica”. Questo pomeriggio passeggia sotto i portici e si ripromette di parlare con gli altri performer, perché… l’iniziativa è molto interessante.

La seconda Susanna, detta anche Su, è una professoressa in pensione di lingua inglese anche lei agée (dipenderà dall’aspetto dell’interlocutore? Che attira signore di una certa età?) vive a Trastevere, abita in via del Mattonato e qui a piazza Vittorio le sembra di stare all’estero, rispetto al resto di Roma, anzi rispetto a Trastevere. Lei è di Liverpool la patria dei Beatles. The best, senza dubbio, a suo dire, anche a mio dire, ma questo non importa. Non ha l’aspetto di una professoressa in pensione perché è just a little bit smandrappata, indossa pantaloni indefinibili e una maglia rosa a maniche lunghe, ma non si capisce se siano indumenti elasticizzati o di due taglie più piccole. E’ sorridente e comunicativa è venuta in Italia dopo la pensione e oltre alla birra, penso che le piaccia la cucina romana. Deve andare a casa.
Arrivederci.
Ciao.

Valentina, l’avevo vista in fondo ai portici che parlava con Emma ed ero un po’ invidioso nei confronti della “collega”, ma Valentina generosamente si è seduta accanto a me senza che ci fosse bisogno di invitarla, occhi azzurro-verdi con capelli tinti di quel rosso che solo chi ha studiato gli impressionisti e visto i film di Eric Rohmer può scegliere. E’ bella e sorridente, abita nelle vicinanze di piazza Vittorio, a Porta Maggiore e si occupa, lavorandoci, di teatro e di animazione, tiene corsi di integrazione interculturale anche nelle scuole (di materiale in zona non manca) ma un certo senso di instabilità lo comunica anche senza dichiararlo. Non ha figli ed in qualche modo lo si poteva capire da un certo tipo di seduttività che metteva in campo. Voleva essere accolta, aveva un modo di guardare che non era la prima volta che incontravo. Lo sguardo di quelle donne che sanno di essere belle, ma la cosa non basta più, perché c’è qualcos’altro che scivola via. Purtroppo fumava, ma molto gentilmente mi chiese se mi desse fastidio ed io mentendo dissi di no, ma lei che aveva capito, cambiò mano allontanando la sigaretta. Ho detto “purtroppo fumava” perché gli incisivi per quanto regolari erano resi opachi e macchiati dalla nicotina, un tratto di trascuratezza che mi sembrò intonato ai portici che ci accoglievano.

Ciao che cosa è questa cosa qui?
Una performance.
Che è?
“Fermati e parliamo”.
Tieni (mi porge un tappo di birra). No grazie non fumo, rispondo.
Di che parliamo?
Di quello che vuoi tu.
Di come si ruba un portafoglio?
Dimmelo tu, che io non sono capace.
Ciao.
Ciao.
Scusa per il mio amico è ubriaco, io vengo dalla Polonia è dal 2002 che sono in Italia, ma non lavoro ed è una settimana che dormo per strada. E’ una bella cosa quella che fate. Se uno si conosce…è meglio…è una bella cosa quella che fate.
L’altro sbraita.
Scusa, devo andare. Ciao.
Ciao.

Ciao e si mette seduto. E’ sulla quarantina, passata da un po’.
Ciao che fai di bello, chiedo?
Beh un po’ lavoro e un po’ non lavoro. Faccio il giornalista e abito qui vicino.
Ciao, ora vado in enoteca.
Ciao.

Sorridente e un po’ imbarazzato non sa come iniziare perché avrebbe potuto partecipare alla performance come uditore, al posto mio magari, ma poi la cosa è saltata. Forse…sarà per la prossima volta...
Eh, tanti anni fa’ abitavo in questa zona, dove mio padre aprì uno dei primi negozi di computer, ai tempi dell’Olivetti M24. Io ho fatto l’informatico e successivamente presi l’incarico all’università e ci andavo a piedi. Poi conobbi una ragazza che diventò mia moglie e prendemmo una casa in una stradina qui vicino. Ora invece abito in viale Libia e per andare al lavoro prendo l’80. Per un sacco di tempo sono andato al lavoro in bicicletta, ma sai che c’è? Con l’80 faccio prima! Poi si guarda la pancia (come lo capisco) e dice che dovrebbe riprendere a pedalare. Magari con quella elettrica. Ora voglio fare un giro, mi dice e parlare con gli altri performer.
Più tardi ci saremmo rivisti in pizzeria.

Lunga, una donna lunga, non semplicemente alta, lunga, col viso lungo e pallido, con i capelli lunghi e bianchi, con una gonna lunga colorata e scolorita, riecheggiante l’abbigliamento femminista degli anni ’70. Lei vuole rimanere in piedi, ma dice subito: E’ bella questa cosa che state facendo! Lo dice perché anche lei si sente un’artista, ma è stata moglie di una persona molto malata e anche gli altri fatti sentimentali sono stati tutti complicati. E racconta: Io sono figlia d’arte, eh sì. Mia madre era fotografa e mio nonno era violinista, io ancora non ho deciso bene in che ambito applicarmi, però mi sento un’artista. Bella cosa quella che state facendo. Ciao e scappa via.
Il mio ciao è rimasto in gola.

Passa una coppia, lei sorregge lui.
Prego accomodatevi.
Magari, il signor Alzheimer ci ha rubato un bel po’ di parole.
Arrivederci.
Arrivederci.

E’ divertente quello che fate.
Prego, sedetevi, dico alle due signore distinte, abbigliate con quello stile che conosco personalmente, di amiche, mogli, amanti.
Ma no, no, non possiamo, noi dobbiamo camminare, ma da quant’è che sei qui?
Dalle quattro. Ah, ma si ferma gente?
Si, si.
Uh, ma che bella gruccia. Che bella idea, quella di appendersi al collo il cartello, con la gruccia. E’ divertente; ma si ferma gente?
Si, si.
Ma che ti dice?
Uno poco fa’ mi voleva parlare di come si rubano i portafogli ma poi non me lo ha detto. Ah è divertente. Ciao. Ciao.

Buonasera.
Buonasera.
Si sieda.
Alto, sorridente dall’aspetto giovanile, eterno ragazzo, anche dopo i quaranta. (Bè, se è eterno!). Mi chiede: Che cos’è quella cosa lì?
Un cartello, dico.
Posso farle una foto, sa io sono un sociologo.
Certo.
E lui, sono quarant’anni che abito in questa piazza.
Bene, dico, così ha potuto osservare i mutamenti antropologici che si sono succeduti nel tempo.
Beh essendo un sociologo… Non è facile spiegare che cosa sia un sociologo.
Anch’io sono laureato in sociologia, abbozzo.
Ah, bene, io faccio il councelor, ma certo i nostri politici… Lei che fa?
Io sono in pensione.
Ah… vive sulle mie spalle, gliela pago io la pensione.
Come io la pagai a chi era in pensione, quando lavoravo.
Ma noi non ce l’avremo la pensione.
Allora se la prenda con chi ha creato le condizioni per un mercato del lavoro basato sul precariato e sul sistema contributivo e non più retributivo.
Qui ci abitano i miei genitori, ora vado da loro. Arrivederci.
Arrivederci.

Si avvicinano le sette ed anche qualcuno che conosco si appropinqua, con la sua fotocamera al collo, è Sergio Sechi. Anche Marco Marassi mi aveva fotografato, un paio di ore prima e devo confessare che accanto ad IN-FINITO di Qwerty mi ci ero seduto apposta. Ahahahahah.

Roma, 30/10/19

Roberto Cavallini













Coraggio piangi, in un pomeriggio uggioso di fine novembre.

date » 17-01-2019

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trucco_by_sechi.jpgieratico_by_Marassi.jpg


Il pomeriggio era uggioso, in fondo eravamo a fine novembre, in una Roma tradizionalmente e maldestramente caotica.
Arrivato al Macro Asilo, che dovrebbe presentarsi già a prima vista, non foss’altro per il nome, come un grande luogo di protezione, il primo approccio è stato spiazzante perché le coincidenze hanno voluto che, quel giorno, nel cortile, per entrare al museo, si dovesse attraversare l’istallazione Non plus Ultra di Gonzalo Borondo, composta da una cinquantina di lastre di vetro alte più di due metri con immagini stampate su ambo il lati: una colonna da un lato e dall’altro un uomo, in campo rosso bruno, con le braccia distese a mo’ di crocifissione. Dunque, per entrare, si era costretti ad attraversare e superare le colonne d’Ercole, con presagi di sangue, apocalittici.
La ampia scalinata d’entrata, che prosegue in lieve discesa, porta verso la hall del museo, luogo buio dove si aprono ai lati spiragli di luce delle sale ed al centro, posto come un grembo enorme, infinito, un muro curvo rosso fuoco. Ero alla ricerca della Black Room perché stavo cercando la sala dove stava prendendo vita il progetto artistico Buck up and Cry di Marco Marassi (fotografo) e Barbara Lalle (performer) a cura di Roberta Melasecca. E’ un progetto, questo, in itinere, che vede la fotografia occupare un posto privilegiato tra gli altri media utilizzati e visto che si tratta in una buona misura di fotografia ho girato intorno al grembo rosso cercando confusamente, invece della black room, una dark room (quante coincidenze linguistiche), ma ormai siamo nell’epoca del digitale e le camere oscure sono solo metafore evocative, comunque, l’evocazione era una costante in quel pomeriggio artistico, che sarebbe ritornata sia nelle colonne d’Ercole, che nel pianto degli eroi, come vedremo.
La porta della Black room è silenziosa, senza battenti, a destra della sala si proiettava una precedente edizione del video Buck up and Cry che era la sintesi iconografica dello svolgimento dell’omonimo processo performativo.
Come si conviene quando l’argomento della proiezione non è narrativo e non ha uno sviluppo lineare nel tempo, ma una orizzontalità determinata dalla equipollenza delle immagini proiettate, si assiste in piedi in modo da condividere attraverso la stanchezza, la scomodità ed un punto di vista incerto e mobile, l’inquietudine di chi si è sottoposto allo “shooting performativo che ha proposto al fruitore maschile, di fare esperienza della rottura di due tabù del mondo eterosessuale, maschile, bianco, contemporaneo: il trucco ed il pianto.”
Scorrono volti sullo schermo con l’espressione implorante o contratta o persa in una dimensione esistenziale prima poco esplorata, se non del tutto sconosciuta, dai performer stessi, più voci recitative evocano mitologie lontane, il maschile, il femminile, archetipi e contemporaneità e cito: “ Nelle situazioni estreme l'eroe piange e così si sente vivo. Dopo il lutto e la disperazione, può rinascere. Il pianto degli uomini si svela già da subito diverso da quello delle donne: le lacrime femminili sono inesauribili e le sfinisce, quello degli uomini permette la palingenesi.”
Mentre assisto alla sovrapposizione di immagini, di voci, di suoni e di melodie indistinte, mi sono sentito prendere la mano e portare in un altro ambito della Black room, ed io che ero andato ingenuamente ad assistere ad una performance, sono stato gentilmente invitato e coinvolto con modi affabili e seducenti a parteciparvi.
Nudo dalla cintola in su, mi sono sottoposto al trucco, una cosa che non avevo mai fatto prima e ho pensato, tra me e me, visto che ero seduto di fronte ad un fotografo, (dimenticando per un momento il significato del video che avevo visto pochi istanti prima) che così sarei venuto più bello in fotografia.
Essere truccato da una donna esula completamente da quello che potrebbe essere interpretato come un atteggiamento civettuolo e almeno per me è stato un momento di rilassamento, di passività, al quale mi sono sottoposto con piacere: avevo qualcuno che si prendeva cura di me.
Poi dopo l’applicazione del bistro, come fosse un collirio mi sono state applicate le lacrime finte che per necessità sceniche irritano gli occhi che a loro volta diventano un po’ rossi come durante un vero pianto. Pronto per la ripresa il fotografo mi ha chiesto di assumere una espressione che lui ha deciso quale dovesse essere e come un demiurgo ha stabilito ovviamente quando era giunto il momento di premere il pulsante.
Considerando che oggi, con le fotocamere digitali, le foto scattate compaiono immediatamente sullo schermo LCD, ho chiesto come ero venuto? La risposta è stata: "Ieratico".

Roma 27 novembre 2018

P.S. Un ringraziamento ad Alessandro Arrigo ed a Sergio Sechi che si sono incuriositi alla mia persona, fotografandomi.

Parole e Ombre

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la Tevere Art Gallery di Roma che accoglierà l’esposizione delle opere.

Parole e ombre

a cura di Arturo Belluardo e Roberto Cavallini

Da domani, ogni martedì e venerdì, Succedeoggi torna a rendere fratelli arte e narrativa. Dopo il successo delle serie di Testo a fronte, le rassegne di racconti illustrati dagli artisti della Galleria Porta Latina di Roma, stavolta a gemellarsi sono narratori e fotografi. L’idea è stata quella di far dialogare tra loro linguaggi diversi, artisti della parola e artisti dell’immagine. Narratori e poeti da un lato, fotografi, pittori, artisti visuali dall’altro.
Per alcune settimane verranno pubblicati racconti e poesie (una ventina in tutto) affiancati da opere realizzate dai fotografi e dagli artisti (i “mostri”) della TAG – la Tevere Art Gallery di Roma. Il tutto culminerà il 23 novembre con un evento alla TAG, dove l’esposizione delle opere verrà affiancata da una performance curata da Barbara Lalle e da interventi di videomapping di Nicola Pavone. Il progetto nasce nell’alveo del Tevere, nell’ansa della Magliana, dove dall’alto del vicino Monte Cucco i fantasmi di Totò e Ninetto Davoli si aggirano in compagnia di Santa Passera, dove il Freddo e il Libanese vanno a sentire Fabrizio De André, nasce su un argine del Dio Fiume dove “il sensibile” stampatore Luciano Corvaglia apre periodicamente le porte della sua galleria, la TAG, ai “mostri”, a tutti i fotografi non professionisti che vi vogliono esporre.
La location particolare, una comunità meticcia di artisti che spaziano in tutti i generi (fotografia, pittura, collage, musica, scrittura) fanno della Tevere Art Gallery un luogo unico a Roma: il desiderio dei curatori di dare spazio a questo mondo attraverso una rivista sempre attenta alle nuove sensibilità ha fatto nascere Parole e Ombre.
Quest’estate, abbiamo chiesto a scrittori affermati e meno affermati, dal giovanissimo Rocco Civitarese al veterano Nino De Vita, di regalarci uno sguardo, un loro micromondo da affidare alle mani degli artisti della galleria. Staffili di parole, sperimentali e tradizionali, di spessore e trama fine sono stati consegnati ai lavoratori dell’immagine. Lo sforzo fatto dai curatori è stato quello di proporre autore ad autore, di affiancare per similitudine o per contrapposizione, privilegiando artisti narrativi e pronti a scendere in profondità. La fotografia svincolandosi dalla concretezza dell’impronta si è inoltrata lungo i percorsi dell’astrazione, del simbolico; c’è chi ha rivisitato il proprio archivio, chi ha realizzato foto nuove, chi ha preferito alla fotografia la pittura o l’installazione. Il risultato è stato particolare, sorprendente.
Lo vedrete, lo valuterete ogni settimana a partire da oggi.
Buone emozioni.

video della serata


http://www.succedeoggi.it/2018/11/ventilate-stanze/ Parole Ombre 10 - Ventilate stanze di Mariagiorgia Ulbar - Acquerello di Alessandro Arrigo

http://www.succedeoggi.it/2018/11/telo-racconto/ Parole e Ombre 9 - Telo racconto di Claudia Colaneri - Fotografie di Vera Castellucci

http://www.succedeoggi.it/2018/11/punto-di-ripristino/ Parole e Ombre 8 - Punto di Ripristino di Simona Baldelli - Fotografia di Sabrina Genovesi

http://www.succedeoggi.it/2018/11/il-gioco/ Parole e Ombre 7 - Il Gioco di Carmen Verde - Fotografia di Alessandro Bortolozzo

http://www.succedeoggi.it/2018/11/il-giorno-dopo-la-pioggia/ Parole e Ombre 6 - Il giorno dopo la pioggia di Lorena Fiorelli - Fotografia di Carmine Frigioni

http://www.succedeoggi.it/2018/10/tanaliberatutti/ Parole e Ombre 5 - Tanaliberatutti di Paolo Vanacore - Fotografia di Sandra Paul

http://www.succedeoggi.it/2018/10/i-pesci-sono-migranti-liberi/ Parole e Ombre 4 - I pesci sono migranti liberi di Michele Caccamo - Fotografia di Giovanna Chessa

http://www.succedeoggi.it/2018/10/giustino/ Parole e Ombre 3 - Giustino di Paolo Restuccia - Fotografia di Stefano Restivo

http://www.succedeoggi.it/2018/10/caleidoscopio/ Parole e Ombre 2 - Caleidoscopio di Rocco Civitese - Fotografia di Emanuele Dini

http://www.succedeoggi.it/2018/10/a-malata/ Parole e Ombre 1 - ’A malata di Nino de Vita - Fotografia di Re Barbus

http://www.succedeoggi.it/2018/10/parole-e-ombre/ Presentazione di Parole e Ombre di Arturo Belluardo e Roberto Cavallini



Salvina parla piano di Alessandra Pizzullo - acquerello di Serena Galluzzi

date » 19-11-2018 17:25

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Salvina parla piano
di Alessandra Pizzullo



Salvina parla piano, dolce. Siamo sole. E non è un caso che siamo sole, di-venteremo amiche, dice.
“Ci addumannai al parroco il permesso di fare il film in confessione e lui mi ha detto: Salvina, devi avere fede, non stai facendo niente di male, anzi è Dio che ti ha messo su questa strada, serve per la tua missione; devi essere semplice e vedrai che tutto andrà bene. Porterai la tua testimonianza. E mi benedisse.”
Così abbiamo anche la benedizione. Sorrido, pensando che a Giannino Cor-tese, che è diventato musulmano, alla moschea di Licata hanno dato la be-nedizione per il film.
Salvina mi regala un’immaginetta di Cristo. E’ biondo con la faccia larga. Ri-preso da una prospettiva sghemba. Sull’immaginetta c’è scritto:

Tu sei il mio capolavoro.
Il mio volto risplende sul tuo volto.
Io ti ho creato a mia immagine.
Io conosco il tuo nome da sempre,
anche il numero dei tuoi capelli
prima che tu nascessi io ti conoscevo.
Ti ho chiamato e sei venuta al mondo
perché ti amo da sempre.

Vedo Gesù seduto in un biancore primordiale che conosce già il numero dei miei capelli e mi chiedo se sa anche che mio cugino Cosimo è completamen-te calvo.
Mi tornano in mente le pagine del mio libretto del catechismo, lo sgorgare in-cessante di arancio dalle pagine spesse, di raggi gialli che partono da un grande occhio, lo sgomento di un mondo parallelo, come una quarta dimen-sione che non aveva niente a che fare con il mio mondo di bambina.
Mentre Salvina guarda le pagine della sceneggiatura, sento in bocca il sapore del pane di Piana degli Albanesi intriso di vino rosso. La mia prima comunio-ne col rito ortodosso, mentre, come una piccola Santa Teresa, mi confondo nell’estasi di Santa Maria dell’Ammiraglio di Palermo e per la prima volta in vi-ta mia capisco la parola sensualità senza riconoscerla. E’ una vertigine e un calore che sale alle guance, al corpo, poi scende giù fino a profondità ancora sconosciute, quasi svengo e mi sento santa, proprio santa. Quando con mia sorella guardiamo le foto della prima comunione, ridiamo di quel vestito da sposa con il velo e la borsetta a forma di cuoricino, il cuore di Gesù. Mia so-rella ha una faccia monella e ribelle; adesso che ci penso non le ho mai chie-sto cosa pensasse quel giorno, ma io ho un’espressione casta e ispirata, con i boccoli lunghi e biondi.
“Forse sono pronta” dice Salvina con la voce che rimbomba nella palestra della scuola elementare di Favara e mi riporta al presente. Proviamo. A volte è troppo dolce e monocorde. Riproviamo.
“Com’è u sucu? Attia sempre t’è piaciuto ‘u sucu chi milinciani… u‘caciu ci u mittisti?”. La battuta della scena con Filippo e Giovanni non le viene bene.
“E’ la memoria o non è chiaro il significato?”
Salvina esita: “Tutt’e due le cose. Forse ho capito, dev’essere come il rosario, le parole sono sempre le stesse, ma si possono assistimari in maniera diver-sa. E’ come quando mi dissero: Salvina, fai una confessione, una preghiera personale. Io dissi no, poi sentii la voce del Signore che diceva vai, pigliai il microfono e parlai davanti a tutti e mi dissero: Ma come sei bella quando pre-ghi, ecco, forse devo lasciarmi andare così a recitare”.
“Vedi, Salvina, la zia Vincenza nel film non vuole sapere se il sugo è buono o no, sta solo riempiendo un vuoto, il silenzio è troppo carico di tensione fra padre e figlio e lei parla, parla e loro non le rispondono mai, è così per tutto il film, nessuno le risponde mai, la zia Vincenza è come un mobile della casa”.
Lei mi guarda bianca e piccola: “Sì, so com’è.”
Qualcuno mi ha detto che suo marito era un animale, che la picchiava. Che quando è morto per lei è stata una liberazione. Non dico nulla.
“Mio marito muriu che io avevo trentadue anni. Sempre una vita riservata ho avuto. Non talio mai la televisione, le cose brutte. Da bambina stavo in colle-gio. Una vita felice la mia. Poi, da grande, sai, sola e con due picciriddi mi sono messa a fare le pulizie nella parrocchia di Sant’Antonino e pulendo di-cevo a Gesù fra me e me Gesù, putissi puliziari ‘u me’ cori comu puliziu st’agnuni e Gesù mi sentì e allora io cominciai a confessarmi e a confessarmi fino a puliziari l’agnuni du’ me cori e ora addiventai ministro straordinario” al mio sguardo interrogativo “do la comunione agli ammalati e tremo sempre quando ho in mano il cuore di Gesù, sempre mi emoziono. E tu?”.
“Sono una che crede nella spiritualità e penso che la nostra vita sia sempre nelle nostre mani” e poi con un volo senza paracadute svio sulla religiosità di mia madre e sulla chiesa ortodossa di Piana degli Albanesi. Lei non conosce né il paese né il rito, non ne ha mai sentito parlare. Allora mi perdo in spiega-zioni e la spiritualità vira sull’architettura della chiesa e sulla storia dei turchi che invadono l’Albania e degli Albanesi che fuggono nel Sud dell’Italia e sui canti bizantini e sulla strana e affascinante lingua che parla mia madre.
Giriamo la scena con Salvina, Filippo e Giovanni: sono seduti a tavola. Salvi-na si emoziona e piange sul serio. Giovanni è intenso e Filippo rabbioso, di una rabbia interiore. L’intensità della scena emoziona tutto il set. Queste per-sone non sono attori, e vivono sulla propria pelle la storia.
“Mi sento meglio, sai, meglio assai ora ca fici a scena.”
I giorni di Salvina sono tutti uguali: si alza, lava i pavimenti, sorride, taglia il pane, scrive ai figli in carcere, uno al Pagliarelli e l’altro a Padova e va a messa, si prende cura dei nipoti e ti racconta che è felice, ma sembra una cit-tà bombardata, che aspetta un soffio per disfarsi in un fumo polveroso.
Ognuno di noi porta dentro l’anima un cane rognoso, un bambino storpio, una peste silenziosa, e quando ce li ritroviamo specchiati negli altri, fuggiamo via. Salvina invece si è presa carico del suo dolore e l’ha messo a disposizione del film.
Mi vengono in mente tutte le mie paure: Salvina che deve girare alle tre del mattino, che deve stare in camicia da notte, lei così pudica, che deve svenire alla processione…ma Salvina parla di sé e per la prima volta le piace, tutto è semplice per lei. Sta puliziannu l’agnuni d’u so’ cori.
Dopo aver girato l’ultima scena, Salvina si alza stanca, il suo viso è radioso, si tiene un fianco con la mano sinistra. Le do un bicchiere d’acqua.
“Grazie, dopo tutti i spaghetti ca mi manciai…” ride e mi abbraccia “grazie grazie. ’Un ti scurdari di mia quannu tinni vai...”.
Sento il calore umido del suo corpo. Trema.
Mentre scrivo questa pagine Salvina mi telefona, è sempre così, tutte le volte che penso a lei mi telefona, dice che mi sente, ride e non si stupisce.
“Lo sapevo che mi stavi pensando”.

Mastectomia di Mara Ribera - fotografia di Valeria Gradizzi

date » 19-11-2018 17:23

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Mastectomia
di Mara Ribera


Il giorno che mi hanno diagnosticato un carcinoma alla mammella, si disputavano gli europei di calcio. Udivo gli italiani esultare, nelle case e nei bar, per i goal degli azzurri. Due a zero per noi: la vittoria.
Io invece ero stata sconfitta. Bastonata per bene dalle cellule del mio corpo, ancora una volta. Sono quasi trent’anni che mi danno il tormento, trent’anni in cui i miei leucociti, come soldatini bianchi agli ordini della paranoia, attaccano i tessuti sani scambiandoli per il nemico. Succede quando hai una patologia autoimmune. E non esiste cura.
Però nel mio caso non si muore. Si soffre soltanto. A lungo. Fino alla fine.
Ma non si muore.
In quel caso. Quello autoimmune, intendo.
In questo invece – il cancro – ho qualche probabilità di morire. E morire male.

Quando mi hanno diagnosticato un carcinoma alla mammella ho sorriso. Il senologo che mi ha ricevuto nello studio, con le lastre della mammografia in mano, era pallido in volto, quasi giallo, le sopracciglia a V e gli angoli della bocca piegati verso il basso. Pareva un emoticon di WhatsApp. Non ne ricordo la fisionomia. Non saprei riconoscerlo se lo incontrassi. Nella mia memoria è solo una faccina virtuale.
“È brutto, signora. È brutto, questo nodulo”.
“In che senso?”
“È maligno”.
Io ho mantenuto il sorriso per tutto il tempo dell’esame citologico, tranne quei pochi secondi in cui l’emoticon in camice bianco mi ha comunicato che avrebbe dovuto bucarmi il seno due volte, perché col primo prelievo non aveva aspirato materiale abbastanza.
Gli aghi mi fanno paura.
Ho reagito bene, dicevo. Perché la notizia, come la faccia del senologo, mi sembrava virtuale. Apparteneva a una realtà parallela. Era fatta della stessa materia di cui sono fatti i selfie.
Impossibile che il tumore maligno potesse capitare a me. Io ho già dato. Io ho già sofferto. Io convivo col dolore cronico dalla giovinezza. E poi anche quell’incidente stradale, nel 2012, quasi mi amputavano un piede. E tutte le mie patologie, che una sera di tanti anni fa, a contarle insieme a un’amica prima di addormentarci – come si fa con le pecore – non finivamo più. E ridevamo. Ridevamo di gusto.
Rido sempre dei miei mali, io.
Col carcinoma però non ci riesco ancora. Datemi tempo.
Datemi un consiglio.
Datemi una traccia.
Datemi uno schiaffone per risvegliarmi da questo incubo, o una sculacciata, come a un bambino appena uscito dal ventre della madre. Fatemi nascere ancora.
Fatemi rinascere sana.

Quando il chirurgo mi ha parlato di mastectomia, mi è mancato il respiro. L’uomo che mi opererà entri pochi giorni ha una faccia che non si dimentica. La barba lunga, da ebreo ortodosso. Gli occhi vigili, intelligenti, bagnati da una goccia di timidezza. Mi ha spiegato che ci sarebbe un’alternativa al taglio della mammella, si chiama chemioterapia neoadiuvante. Ti trattano prima dell’intervento con sei cicli endovena, per tentare di ridurre il nodulo, così poi possono salvarti il capezzolo. Forse.
E forse a me la chemioterapia farebbe un bel danno. Forse il mio corpo non riuscirebbe a sostenerla. Potrei aggravarmi, potrei ritornare in quell’inferno impossibile da dimenticare, prima delle moderne terapie che mi hanno promossa al purgatorio della sopportabilità. E quel dolore di un tempo, quello che non riuscivano a controllarlo e che piuttosto preferivo la morte – volevo morire, sì, quante volte avrei voluto morire – quello mi fa più paura di un miliardo di aghi. E della mastectomia. Allora via tutto. Dai, in fondo non ci tengo tanto al mio seno. Che volete che sia, dopo mi farò la quinta misura. Finalmente sarò una maggiorata.
L’ho detto col sorriso.
L’oncologo, seduto vicino al chirurgo, ha approvato: “Meglio, perché con la chemio rischiamo d’impantanarci”.
Io in realtà è una vita che m’impantano, volevo dirgli, e alla fine nel fango ho imparato anche a muovermi bene.
Ma col cancro è meglio muoversi in fretta. E andare molto veloce, più veloce di quelle zampe di zecca che si sono arpionate alla mia carne e vogliono succhiarmi la vita. Così sono stata zitta. E ho continuato a sorridere.
Certo, la chemio potrebbe rendersi necessaria comunque, dopo. Ma anche se fosse, avendo già estirpato il mostro, i medici avrebbero il tempo di personalizzarla per limitarne gli effetti collaterali.
Più tardi, mentre mi lasciavo l’ospedale alle spalle, ripensavo alla ricostruzione. Non è mica semplice. Ti svegli dall’anestesia con un palloncino inserito sotto i muscoli pettorali che si chiama espansore. Ha una valvola, sottocutanea, e attraverso quella ogni settimana ti gonfiano con una siringa di soluzione fisiologica. Un po’ come la revisione delle gomme dell’auto, un po’ come una bambola di un sexy shop. Dopo qualche mese, quando la pelle rimasta si è dilatata abbastanza, torni sotto i ferri e ti mettono la protesi. Ma non è ancora finita, manca il capezzolo, sembri una barbie a metà. Quello arriva più tardi, ricavato dalla pelle di un’altra zona del corpo. E te lo colorano con un tatuaggio. Ma restano le cicatrici.
Giunta a casa mi sono rannicchiata sul letto. Faceva caldo. Non ero più sicura della mia decisione. Il sorriso era scomparso dalle mie labbra. E un pensiero invadente, voluminoso, denso e impossibile da allontanare, stava prendendo forma nella mia mente.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Il pensiero diventava voce. Lo sentivo uscire dalla gola. Prima era flebile, quasi un lamento strozzato.
Poi si è trasformato in un urlo. Sempre più forte. Sempre più violento. Era così ingombrante che non riuscivo a espellerlo tutto. Allora si è fatto spazio nel mio stomaco, nelle mie tempie, mi ha attraversato come una lama e mi ha squassato il cuore.
Il mio corpo era tutto una negazione. Un inutile disperato rifiuto.
Perché se volere è potere, non volere è impotenza.
Non volere è una supplica.
Dopo, quando ho smesso di piangere e urlare, sono andata in bagno e mi sono guardata allo specchio. Nuda. Anche il capezzolo era triste. Sembrava sapere di essere arrivato alla fine della sua turgida esistenza. Pendeva verso il basso, incupito e scuro. Più a destra l’areola era già retratta, tipico sintomo del carcinoma. È un male che ti fa implodere, che ti risucchia dall’interno, è un buco nero nella galassia del corpo.
Mi sono stupita di quanto sono ancora bella, senza vestiti, nonostante l’età. Ho quarantanove anni. E la mia bellezza è sempre stata il mio scudo, la maschera che nascondeva la malattia, il velo che celava allo sguardo degli altri il dolore cronico. Non sembravo malata, non avevo tatuato addosso il logorio interno che mi rende inadeguata a una vita normale. Ma presto si vedrà. Presto sarò una tela su cui il cancro avrà dipinto le sue allucinate visioni.
Presto sarò un’altra donna.

Stasera c’è aria di temporale e la partita Italia-Germania.
Io non tifo. Penso alla mastectomia.
Cercando su internet ho letto che la chiamano “chirurgia demolitiva”.
Ma chi l’ha inventata questa definizione?
Come se per demolirmi fosse sufficiente tagliarmi una tetta. Come se con tutto ciò che ho vissuto, sofferto, mandato giù a forza, digerito e accettato, il bisturi potesse distruggermi.
Come se la mia indipendenza, il mio bastare a me stessa senza aggrapparmi a niente e nessuno, la mia forza ostinata, la mia passione, la mia inalterata capacità di stupirmi ogni giorno per la bellezza del mondo, temessero la mastectomia.
Demolitiva un cazzo.
I miei vicini urlano in coro, le due squadre sono arrivate ai rigori. Una sfida lunga e sofferta, questa dei quarti di finale, che sta per finire.
La mia inizia ora.

Le cose che ho di lei di Flavia Ganzenua - fotografia di Lara Garofalo

date » 19-11-2018 17:19

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Le cose che ho di lei
di Flavia Ganzenua


Ho gli occhi chiari di mia madre, il suo stesso colore, ma più distanti l’uno dall’altro, due fessure, e tenuti sempre giù, in basso, a scovare piste e tracce, a stanare passi e impronte, come affondano nel terreno e cedono via via alla stanchezza e alla resa, perché io sono un predatore.
Sono un predatore, non risparmio niente, mi cibo di tutto e dei suoi resti, metto a ferro e fuoco ogni letto, casa, ogni città in cui passo. Faccio a pezzi lettere d’amore e anniversari, il senso delle date, nomi e cognomi. Lego mia sorella, le mani dietro la schiena, la benda sugli occhi, e la spingo giù dalle scale, sono il suo plotone di esecuzione. Stacco la coda alle lucertole, le infilo in un sacchetto pieno d’acqua e le guardo finché non diventano sempre più lente e rigide e non salgono su, a galla, dei bastoncini.
Ho la stessa bocca di mia madre ma denti e labbra spaccati a furia di ribellarmi al morso.
Sono femmina, proprio come lei, ma non ci sono rospi da baciare, né trecce da sciogliere in cima alla mia torre. Il mio carnet di ballo è una lista di morti e dispersi, me e mia madre comprese – tutto in memoria del padre, andato via una notte senza portare niente con sé che gli facesse pensare a noi, non una foto, un regalo che gli avevamo fatto. Ogni cosa di lui che è rimasta è una croce. Andato via senza voltarsi, senza rispondere a nessuna domanda, insulto, supplica o implorazione. I suoi passi giù per le scale sono una raffica di mitragliatrice che risuona ancora adesso e rade al suolo tutto, il suo nome, ancora in bella vista sul citofono, è il primo dell’elenco dei disertori. Come mia madre, non faccio che tornare a quella notte, ho gli stessi anni di allora, mi ci consumo, disfo dentro, quella notte è una spiaggia di sabbia e sassi che leva via la pelle di dosso, tormenta respiro e passi e costringe ad attraversarla con dolore.
Sono una femmina che va con altre femmine, che ne mangia e si fa mangiare il cuore, so di letti e lenzuola sfatti e so di nido e di latte. Nessuna fede è mai abbastanza larga o stretta, nessuna resiste tanto a lungo da lasciare il segno, un’aureola, intorno alle mie dita. Non stringo cosce e gambe quando mi siedo, non tengo le mani composte sul grembo o lungo i fianchi quando cammino. Ci sollevo gonne, con quelle mani, allento cravatte e bottoni. Mani che danno da mangiare ai cani, li accarezzano e poi stringono il collare di un giro, perché ci si sgozzino con quel collare, a furia di guaire e tirare.
Sono scampata a una guerra, proprio come mia madre, proprio come mia madre ne porto addosso tutta la devastazione. Il mio corpo è una costellazione di fori di spurgo e punti di sutura, Orse Minori e Maggiori, stelle comete e buchi neri che ingoiano tutto ciò che gli capita a tiro. Sono medaglie al valore che esibisco e lucido con cura, chi mi spoglia può solo guardare, guardare e non toccare.
Sono una principessa, proprio come lei, ma dalla voce da maschio che gonfia la stoffa dei pantaloni, ne distende ogni sua piega, e i capelli del colore sbagliato, così rossi e accesi, rasati sempre di fresco.
Amo il padre suo marito, proprio come lo ama lei. Proprio come lo onora lei, io lo onoro. Mi siedo sulle sue ginocchia, gli afferro le mani a tentoni, mi ci aggrappo, stringo le gambe e mi strofino, su e giù - Cavalluccio arrò arrò…
Vivo nella stessa casa in cui è vissuta mia madre, compro e mangio le stesse cose che mangiava lei, indosso i suoi stessi vestiti, la sua spazzola è ancora lì, accanto allo specchio, ci sono foto di lei dappertutto, il suo nome è una parola d’ordine a cui non si può disobbedire. Apparecchio la tavola per due, la servo sempre per prima, le lascio biglietti in cucina prima di uscire, la chiamo per dirle che sono arrivata e ripartita, che non ci sarò a pranzo o a cena, mi addormento e mi risveglio nello stesso letto in cui ha cominciato a morire lei.

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