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Le cose che ho di lei di Flavia Ganzenua - fotografia di Lara Garofalo

date » 19-11-2018 17:19

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fotografia di Lara Garofalo

Le cose che ho di lei
di Flavia Ganzenua


Ho gli occhi chiari di mia madre, il suo stesso colore, ma più distanti l’uno dall’altro, due fessure, e tenuti sempre giù, in basso, a scovare piste e tracce, a stanare passi e impronte, come affondano nel terreno e cedono via via alla stanchezza e alla resa, perché io sono un predatore.
Sono un predatore, non risparmio niente, mi cibo di tutto e dei suoi resti, metto a ferro e fuoco ogni letto, casa, ogni città in cui passo. Faccio a pezzi lettere d’amore e anniversari, il senso delle date, nomi e cognomi. Lego mia sorella, le mani dietro la schiena, la benda sugli occhi, e la spingo giù dalle scale, sono il suo plotone di esecuzione. Stacco la coda alle lucertole, le infilo in un sacchetto pieno d’acqua e le guardo finché non diventano sempre più lente e rigide e non salgono su, a galla, dei bastoncini.
Ho la stessa bocca di mia madre ma denti e labbra spaccati a furia di ribellarmi al morso.
Sono femmina, proprio come lei, ma non ci sono rospi da baciare, né trecce da sciogliere in cima alla mia torre. Il mio carnet di ballo è una lista di morti e dispersi, me e mia madre comprese – tutto in memoria del padre, andato via una notte senza portare niente con sé che gli facesse pensare a noi, non una foto, un regalo che gli avevamo fatto. Ogni cosa di lui che è rimasta è una croce. Andato via senza voltarsi, senza rispondere a nessuna domanda, insulto, supplica o implorazione. I suoi passi giù per le scale sono una raffica di mitragliatrice che risuona ancora adesso e rade al suolo tutto, il suo nome, ancora in bella vista sul citofono, è il primo dell’elenco dei disertori. Come mia madre, non faccio che tornare a quella notte, ho gli stessi anni di allora, mi ci consumo, disfo dentro, quella notte è una spiaggia di sabbia e sassi che leva via la pelle di dosso, tormenta respiro e passi e costringe ad attraversarla con dolore.
Sono una femmina che va con altre femmine, che ne mangia e si fa mangiare il cuore, so di letti e lenzuola sfatti e so di nido e di latte. Nessuna fede è mai abbastanza larga o stretta, nessuna resiste tanto a lungo da lasciare il segno, un’aureola, intorno alle mie dita. Non stringo cosce e gambe quando mi siedo, non tengo le mani composte sul grembo o lungo i fianchi quando cammino. Ci sollevo gonne, con quelle mani, allento cravatte e bottoni. Mani che danno da mangiare ai cani, li accarezzano e poi stringono il collare di un giro, perché ci si sgozzino con quel collare, a furia di guaire e tirare.
Sono scampata a una guerra, proprio come mia madre, proprio come mia madre ne porto addosso tutta la devastazione. Il mio corpo è una costellazione di fori di spurgo e punti di sutura, Orse Minori e Maggiori, stelle comete e buchi neri che ingoiano tutto ciò che gli capita a tiro. Sono medaglie al valore che esibisco e lucido con cura, chi mi spoglia può solo guardare, guardare e non toccare.
Sono una principessa, proprio come lei, ma dalla voce da maschio che gonfia la stoffa dei pantaloni, ne distende ogni sua piega, e i capelli del colore sbagliato, così rossi e accesi, rasati sempre di fresco.
Amo il padre suo marito, proprio come lo ama lei. Proprio come lo onora lei, io lo onoro. Mi siedo sulle sue ginocchia, gli afferro le mani a tentoni, mi ci aggrappo, stringo le gambe e mi strofino, su e giù - Cavalluccio arrò arrò…
Vivo nella stessa casa in cui è vissuta mia madre, compro e mangio le stesse cose che mangiava lei, indosso i suoi stessi vestiti, la sua spazzola è ancora lì, accanto allo specchio, ci sono foto di lei dappertutto, il suo nome è una parola d’ordine a cui non si può disobbedire. Apparecchio la tavola per due, la servo sempre per prima, le lascio biglietti in cucina prima di uscire, la chiamo per dirle che sono arrivata e ripartita, che non ci sarò a pranzo o a cena, mi addormento e mi risveglio nello stesso letto in cui ha cominciato a morire lei.

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