Coraggio piangi, in un pomeriggio uggioso di fine novembre.
date » 17-01-2019
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Il pomeriggio era uggioso, in fondo eravamo a fine novembre, in una Roma tradizionalmente e maldestramente caotica.
Arrivato al Macro Asilo, che dovrebbe presentarsi già a prima vista, non foss’altro per il nome, come un grande luogo di protezione, il primo approccio è stato spiazzante perché le coincidenze hanno voluto che, quel giorno, nel cortile, per entrare al museo, si dovesse attraversare l’istallazione Non plus Ultra di Gonzalo Borondo, composta da una cinquantina di lastre di vetro alte più di due metri con immagini stampate su ambo il lati: una colonna da un lato e dall’altro un uomo, in campo rosso bruno, con le braccia distese a mo’ di crocifissione. Dunque, per entrare, si era costretti ad attraversare e superare le colonne d’Ercole, con presagi di sangue, apocalittici.
La ampia scalinata d’entrata, che prosegue in lieve discesa, porta verso la hall del museo, luogo buio dove si aprono ai lati spiragli di luce delle sale ed al centro, posto come un grembo enorme, infinito, un muro curvo rosso fuoco. Ero alla ricerca della Black Room perché stavo cercando la sala dove stava prendendo vita il progetto artistico Buck up and Cry di Marco Marassi (fotografo) e Barbara Lalle (performer) a cura di Roberta Melasecca. E’ un progetto, questo, in itinere, che vede la fotografia occupare un posto privilegiato tra gli altri media utilizzati e visto che si tratta in una buona misura di fotografia ho girato intorno al grembo rosso cercando confusamente, invece della black room, una dark room (quante coincidenze linguistiche), ma ormai siamo nell’epoca del digitale e le camere oscure sono solo metafore evocative, comunque, l’evocazione era una costante in quel pomeriggio artistico, che sarebbe ritornata sia nelle colonne d’Ercole, che nel pianto degli eroi, come vedremo.
La porta della Black room è silenziosa, senza battenti, a destra della sala si proiettava una precedente edizione del video Buck up and Cry che era la sintesi iconografica dello svolgimento dell’omonimo processo performativo.
Come si conviene quando l’argomento della proiezione non è narrativo e non ha uno sviluppo lineare nel tempo, ma una orizzontalità determinata dalla equipollenza delle immagini proiettate, si assiste in piedi in modo da condividere attraverso la stanchezza, la scomodità ed un punto di vista incerto e mobile, l’inquietudine di chi si è sottoposto allo “shooting performativo che ha proposto al fruitore maschile, di fare esperienza della rottura di due tabù del mondo eterosessuale, maschile, bianco, contemporaneo: il trucco ed il pianto.”
Scorrono volti sullo schermo con l’espressione implorante o contratta o persa in una dimensione esistenziale prima poco esplorata, se non del tutto sconosciuta, dai performer stessi, più voci recitative evocano mitologie lontane, il maschile, il femminile, archetipi e contemporaneità e cito: “ Nelle situazioni estreme l'eroe piange e così si sente vivo. Dopo il lutto e la disperazione, può rinascere. Il pianto degli uomini si svela già da subito diverso da quello delle donne: le lacrime femminili sono inesauribili e le sfinisce, quello degli uomini permette la palingenesi.”
Mentre assisto alla sovrapposizione di immagini, di voci, di suoni e di melodie indistinte, mi sono sentito prendere la mano e portare in un altro ambito della Black room, ed io che ero andato ingenuamente ad assistere ad una performance, sono stato gentilmente invitato e coinvolto con modi affabili e seducenti a parteciparvi.
Nudo dalla cintola in su, mi sono sottoposto al trucco, una cosa che non avevo mai fatto prima e ho pensato, tra me e me, visto che ero seduto di fronte ad un fotografo, (dimenticando per un momento il significato del video che avevo visto pochi istanti prima) che così sarei venuto più bello in fotografia.
Essere truccato da una donna esula completamente da quello che potrebbe essere interpretato come un atteggiamento civettuolo e almeno per me è stato un momento di rilassamento, di passività, al quale mi sono sottoposto con piacere: avevo qualcuno che si prendeva cura di me.
Poi dopo l’applicazione del bistro, come fosse un collirio mi sono state applicate le lacrime finte che per necessità sceniche irritano gli occhi che a loro volta diventano un po’ rossi come durante un vero pianto. Pronto per la ripresa il fotografo mi ha chiesto di assumere una espressione che lui ha deciso quale dovesse essere e come un demiurgo ha stabilito ovviamente quando era giunto il momento di premere il pulsante.
Considerando che oggi, con le fotocamere digitali, le foto scattate compaiono immediatamente sullo schermo LCD, ho chiesto come ero venuto? La risposta è stata: "Ieratico".
Roma 27 novembre 2018
P.S. Un ringraziamento ad Alessandro Arrigo ed a Sergio Sechi che si sono incuriositi alla mia persona, fotografandomi.