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Di Roma e altre piogge di Fabrizio Patriarca - fotografia di Marco Marassi

date » 19-11-2018 16:54

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fotografia di Marco Marassi

Di Roma e altre piogge
di Fabrizio Patriarca

E non ricordavi nulla, la pioggia era soltanto scroscio di tamerici salmastre e rigagnolo su volti silvani, memoria o coincidenza di pose decadenti, con qualche goccia petrarchesca, innocui temporali marinisti, e una pozza di storie tremende, anche tremendissime, sulle insidie dei rovesci, del fortunale infausto, che adesso cominciavano con un passante travolto dalla camionetta impazzita – mai fidarsi del selciato: austerità, aridità! – il passante con l'ombrello come un gomitolo di spire, un personaggio alla Raymond Queneau, forse una delle mille vite di Jacques L'Aumone, magari era proprio Roland Barthes, schiantato dal furgoncino assassino, fine-della-vita-fine-del-desiderio, e non sai se piovesse davanti al Collège de France, di sicuro non ricordi l'ora esatta, ma che morte sottile! Senz’altro stava per piovere, e là terminava la parabola strutturalista, dove cominciava uno strambo mito della leggerezza, poi qualcuno pioggia o non pioggia ci avrebbe ricamato sopra una mascheroneide dell'effimero, una predica tamburellante, perché bastava aggiungere un caffettuccio con chiacchiere, spostare la vicenda collettiva tra i viottoli meno flaneuristici dell'Urbe, collocare quattro guitti all'aperto di un teatrino et voilà era servito il sogno vitalista dell'estate romana, l'antidoto a certa grandeur olezzante di maldigerito nietzscheanesimo: l'estate dell'effimero, l'effimero usava dire realizzato, mandato giù a furia di sentenze, la pioggia dei referti, dei conti, dei dispacci comunali, brigate di marrani, bargelli disorientati dal palpito del jazz, aspiranti sindaci con referenze fondiarie, aspiranti assessori con referenze cabarettistiche, ma soprattutto aspiranti, nel brago postlatino. Urbe còndita e condìta, nel frattempo sotto il velo d'acqua mulinante a prora degli speroni aureliani – transito di checche usava dire sbiadite, mercé di libagioni per pennaioli e pennisti e sandripenna dell'ultima ora, quelli protervi e senza un briciolo di stile, comunque cazzi loro – l'animale sommerso drizzava le pinne, gonfiava le sue branchie colossali, e tu leggiucchiavi di straforo nelle antologie di Vigolo o Muscetta: un Belli esorbitante (Quattro angioloni co' le tromme 'n bocca / Se metteranno uno pe' cantone / A ssonà: poi co' tanto de vocione / Cominceranno a dì: "Fôra a chi ttocca"), il Belli der giudizzio, perché dentro la palingesi universale ci cade sempre bene l'ouverture temporalesca (come peraltro ti dimostrava il Montale d'Arsenio, coi turbini, la polvere, i mulinelli e i cavalli incappucciati e tutte le altre sagome sdrucciole che apparecchiavano apocalissi fradicie, o bagnaticce, o insomma: inzaccherate quel giusto). Agli altri bastava un Trilussa preso di scorcio, un trilussino facile-crepuscolare, come certe logore stampette in casa della bisnonna (e il suo cuore tenerello, assieme al pentolino d'ordinanza che bullicava sul fuoco – riso e lenticchie, i capisaldi, aut fittissima pasta e fagioli): Su l'archetto ar cantone de la piazza / ar posto der lampione che c'è adesso, / ce stava un Cristo e un Angelo de gesso / che reggeva un lumino in una tazza. / Più c'era un quadro, indove una regazza / veniva libberata da un ossesso: / ricordo de un miracolo successo / sbiadito da la pioggia e da la guazza. Poi venne la pioggia dei viaggi, pochi all'inizio ma belli da far tremare, e di quel bacio alla fermata del 671, quello che t'avrebbe saldato alla memoria i caduti della Montagnola, perché la piazza era l’omonima, con la pasticceria e il föhn rovente dei krapfen sulle tielle, e avevate litigato come due stronzi: in te batteva una grandine di rimorsi, ma lei ti aveva raggiunto in bicicletta e quando eri sceso l'avevi trovata là, sotto la pioggia, col fiatone e i capelli appiccicati alle tempie, arrotolati (sempre dalla pioggia) su quegli zigomi impercettibili, e lì ti aveva guardato coi suoi occhi cilestri di estenuata fanciulla moraviana, gli occhi di una malata uscita da certe pagine cupe, cupissime dei Racconti della Pescara, e tu allora avevi lasciato che ogni suggestione fosse risucchiata dal suo bacio incattivito, perché era come se dicesse: via, lasciamo stare, ché tanto finiremo per annegare in tutta questa pioggia, ed era il millenovecentottantanove, non l'altro ieri, avevi diciassette anni, la pioggia fino a quel giorno ti era sempre rimasta indifferente. Intanto, come l'ultimo parvenu arrivato tardi a cena, con una scusa colossale dietro al sorriso smaltato, scorticavi i romanzi del tuo Robbe-Grillet per non capirci quasi niente: la pioggia toccava le persiane e infastidiva tua madre, le cui predilezioni letterarie sono rimaste per te un mistero impenetrabile, di fatto per molti anni ti è sembrato che leggesse solamente quell'unico romanzo di Liala, Il pianoro delle ginestre – il tuo animo leopardiano non sapeva se sdegnarsi – ma ecco: due giorni prima di morire, fissando tuo padre che usciva di casa col suo completo di lino al cospetto di un improbabile acquazzone di settembre, ha sfoderato all'improvviso due versi di Pascoli: Oh! Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini, e tu subito a chiederti quale nubifragio di romanzetti d'appendice avesse sommerso quella chincaglieria scolastica, e quale soprattutto il miracolo che l'aveva testardamente riportata a galla: tuo padre molto abbronzato, forse un po' troppo date le circostanze, un Paul Newmann imbolsito nella zona ventrale dalla consuetudine coi ristorantini prediletti – l'immancabile flûte di Foss Marai, un paio d’astici alla catalana, la carampana sterminatrice di ostriche qualche tavolo più in là che fruga nella tritumea del ghiaccio (gira voce che sia dedita allo strozzinaggio) e t'impartisce soave la sua mollezza di parrucca allo spiedo. Vorresti mandarla usa dire affanculo invece decidi di scrutarla di traverso, mimetizzando l'occhiata dietro un'ascesa di bollicine, e il tuo delirio sale agli astri ormai. Montale, Mediterraneo. Ma adesso piegati, fa' il favore, ritorna a certi paragrafi insistentemente piovosi o pluvialmente insistiti dei gialli da quattro soldi che macinavi da ragazzino, ruderi di città americane immerse nel piovasco perenne, le mura usava dire sbreccate e dietro ogni angolo l'emissario della Funzione Negativa pronto a massaggiarti le gengive con un cric, torva metempsicosi dei bulli che affollavano le tue peraltro eminentissime salesianissime privatissime scuole medie e superiori. La pioggia, evocata solum per onomatopea, chiudeva il poemetto di T.S. Eliot che citavi alla tua ragazza di allora – shanti shanti shanti, come la divinità indiana della pace – che per avventura o forse per un sferica coincidenza si chiamava Irene. La pioggia sopra il tuo presente, guarda: allaga la scrivania. La spruzzata dei maledetti relativi che occorrono per imporre al paragrafo un ritmo scrosciante quando provi a salvare un pezzo di memoria: come il ritratto di Azzurra che avevi fatto fare a Place du Tertre, il carboncino che sfrigolava sulla carta ruvida seguendo la piega dei capelli e sembrava un giro snervante di compasso (maledetto John Donne, che si è fregato le metafore migliori) ma quella snervata era lei, perché non ne poteva più, nonostante il bacio alla Montagnola: il ritratto era scivolato in una cartelletta, e dalla cartelletta a una borsa di pelle, quindi in un cassetto al piano seminterrato nella casa dei tuoi, infine dentro una grossa busta marrone in garage, tra le radiografie di fratture infantili e i referti oncologici dei tuoi antenati. Un giorno la pioggia ha allagato tutto, dalle rade dell’Infernetto fino ai calli di Vitinia, e quando ti sei messo a cercare hai ripescato in quella melma un fogliaccio stinto e stracciato. Allora finalmente, quindici anni dopo la vostra notte in treno – alla Gare de Lyon eravate scesi indolenziti, tenendovi per mano sotto una pioggia fatta di spilli – allora e solo allora hai ricordato veramente il suo viso.

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