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Coraggio piangi, in un pomeriggio uggioso di fine novembre.

date » 17-01-2019

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Il pomeriggio era uggioso, in fondo eravamo a fine novembre, in una Roma tradizionalmente e maldestramente caotica.
Arrivato al Macro Asilo, che dovrebbe presentarsi già a prima vista, non foss’altro per il nome, come un grande luogo di protezione, il primo approccio è stato spiazzante perché le coincidenze hanno voluto che, quel giorno, nel cortile, per entrare al museo, si dovesse attraversare l’istallazione Non plus Ultra di Gonzalo Borondo, composta da una cinquantina di lastre di vetro alte più di due metri con immagini stampate su ambo il lati: una colonna da un lato e dall’altro un uomo, in campo rosso bruno, con le braccia distese a mo’ di crocifissione. Dunque, per entrare, si era costretti ad attraversare e superare le colonne d’Ercole, con presagi di sangue, apocalittici.
La ampia scalinata d’entrata, che prosegue in lieve discesa, porta verso la hall del museo, luogo buio dove si aprono ai lati spiragli di luce delle sale ed al centro, posto come un grembo enorme, infinito, un muro curvo rosso fuoco. Ero alla ricerca della Black Room perché stavo cercando la sala dove stava prendendo vita il progetto artistico Buck up and Cry di Marco Marassi (fotografo) e Barbara Lalle (performer) a cura di Roberta Melasecca. E’ un progetto, questo, in itinere, che vede la fotografia occupare un posto privilegiato tra gli altri media utilizzati e visto che si tratta in una buona misura di fotografia ho girato intorno al grembo rosso cercando confusamente, invece della black room, una dark room (quante coincidenze linguistiche), ma ormai siamo nell’epoca del digitale e le camere oscure sono solo metafore evocative, comunque, l’evocazione era una costante in quel pomeriggio artistico, che sarebbe ritornata sia nelle colonne d’Ercole, che nel pianto degli eroi, come vedremo.
La porta della Black room è silenziosa, senza battenti, a destra della sala si proiettava una precedente edizione del video Buck up and Cry che era la sintesi iconografica dello svolgimento dell’omonimo processo performativo.
Come si conviene quando l’argomento della proiezione non è narrativo e non ha uno sviluppo lineare nel tempo, ma una orizzontalità determinata dalla equipollenza delle immagini proiettate, si assiste in piedi in modo da condividere attraverso la stanchezza, la scomodità ed un punto di vista incerto e mobile, l’inquietudine di chi si è sottoposto allo “shooting performativo che ha proposto al fruitore maschile, di fare esperienza della rottura di due tabù del mondo eterosessuale, maschile, bianco, contemporaneo: il trucco ed il pianto.”
Scorrono volti sullo schermo con l’espressione implorante o contratta o persa in una dimensione esistenziale prima poco esplorata, se non del tutto sconosciuta, dai performer stessi, più voci recitative evocano mitologie lontane, il maschile, il femminile, archetipi e contemporaneità e cito: “ Nelle situazioni estreme l'eroe piange e così si sente vivo. Dopo il lutto e la disperazione, può rinascere. Il pianto degli uomini si svela già da subito diverso da quello delle donne: le lacrime femminili sono inesauribili e le sfinisce, quello degli uomini permette la palingenesi.”
Mentre assisto alla sovrapposizione di immagini, di voci, di suoni e di melodie indistinte, mi sono sentito prendere la mano e portare in un altro ambito della Black room, ed io che ero andato ingenuamente ad assistere ad una performance, sono stato gentilmente invitato e coinvolto con modi affabili e seducenti a parteciparvi.
Nudo dalla cintola in su, mi sono sottoposto al trucco, una cosa che non avevo mai fatto prima e ho pensato, tra me e me, visto che ero seduto di fronte ad un fotografo, (dimenticando per un momento il significato del video che avevo visto pochi istanti prima) che così sarei venuto più bello in fotografia.
Essere truccato da una donna esula completamente da quello che potrebbe essere interpretato come un atteggiamento civettuolo e almeno per me è stato un momento di rilassamento, di passività, al quale mi sono sottoposto con piacere: avevo qualcuno che si prendeva cura di me.
Poi dopo l’applicazione del bistro, come fosse un collirio mi sono state applicate le lacrime finte che per necessità sceniche irritano gli occhi che a loro volta diventano un po’ rossi come durante un vero pianto. Pronto per la ripresa il fotografo mi ha chiesto di assumere una espressione che lui ha deciso quale dovesse essere e come un demiurgo ha stabilito ovviamente quando era giunto il momento di premere il pulsante.
Considerando che oggi, con le fotocamere digitali, le foto scattate compaiono immediatamente sullo schermo LCD, ho chiesto come ero venuto? La risposta è stata: "Ieratico".

Roma 27 novembre 2018

P.S. Un ringraziamento ad Alessandro Arrigo ed a Sergio Sechi che si sono incuriositi alla mia persona, fotografandomi.

Parole e Ombre

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la Tevere Art Gallery di Roma che accoglierà l’esposizione delle opere.

Parole e ombre

a cura di Arturo Belluardo e Roberto Cavallini

Da domani, ogni martedì e venerdì, Succedeoggi torna a rendere fratelli arte e narrativa. Dopo il successo delle serie di Testo a fronte, le rassegne di racconti illustrati dagli artisti della Galleria Porta Latina di Roma, stavolta a gemellarsi sono narratori e fotografi. L’idea è stata quella di far dialogare tra loro linguaggi diversi, artisti della parola e artisti dell’immagine. Narratori e poeti da un lato, fotografi, pittori, artisti visuali dall’altro.
Per alcune settimane verranno pubblicati racconti e poesie (una ventina in tutto) affiancati da opere realizzate dai fotografi e dagli artisti (i “mostri”) della TAG – la Tevere Art Gallery di Roma. Il tutto culminerà il 23 novembre con un evento alla TAG, dove l’esposizione delle opere verrà affiancata da una performance curata da Barbara Lalle e da interventi di videomapping di Nicola Pavone. Il progetto nasce nell’alveo del Tevere, nell’ansa della Magliana, dove dall’alto del vicino Monte Cucco i fantasmi di Totò e Ninetto Davoli si aggirano in compagnia di Santa Passera, dove il Freddo e il Libanese vanno a sentire Fabrizio De André, nasce su un argine del Dio Fiume dove “il sensibile” stampatore Luciano Corvaglia apre periodicamente le porte della sua galleria, la TAG, ai “mostri”, a tutti i fotografi non professionisti che vi vogliono esporre.
La location particolare, una comunità meticcia di artisti che spaziano in tutti i generi (fotografia, pittura, collage, musica, scrittura) fanno della Tevere Art Gallery un luogo unico a Roma: il desiderio dei curatori di dare spazio a questo mondo attraverso una rivista sempre attenta alle nuove sensibilità ha fatto nascere Parole e Ombre.
Quest’estate, abbiamo chiesto a scrittori affermati e meno affermati, dal giovanissimo Rocco Civitarese al veterano Nino De Vita, di regalarci uno sguardo, un loro micromondo da affidare alle mani degli artisti della galleria. Staffili di parole, sperimentali e tradizionali, di spessore e trama fine sono stati consegnati ai lavoratori dell’immagine. Lo sforzo fatto dai curatori è stato quello di proporre autore ad autore, di affiancare per similitudine o per contrapposizione, privilegiando artisti narrativi e pronti a scendere in profondità. La fotografia svincolandosi dalla concretezza dell’impronta si è inoltrata lungo i percorsi dell’astrazione, del simbolico; c’è chi ha rivisitato il proprio archivio, chi ha realizzato foto nuove, chi ha preferito alla fotografia la pittura o l’installazione. Il risultato è stato particolare, sorprendente.
Lo vedrete, lo valuterete ogni settimana a partire da oggi.
Buone emozioni.

video della serata


http://www.succedeoggi.it/2018/11/ventilate-stanze/ Parole Ombre 10 - Ventilate stanze di Mariagiorgia Ulbar - Acquerello di Alessandro Arrigo

http://www.succedeoggi.it/2018/11/telo-racconto/ Parole e Ombre 9 - Telo racconto di Claudia Colaneri - Fotografie di Vera Castellucci

http://www.succedeoggi.it/2018/11/punto-di-ripristino/ Parole e Ombre 8 - Punto di Ripristino di Simona Baldelli - Fotografia di Sabrina Genovesi

http://www.succedeoggi.it/2018/11/il-gioco/ Parole e Ombre 7 - Il Gioco di Carmen Verde - Fotografia di Alessandro Bortolozzo

http://www.succedeoggi.it/2018/11/il-giorno-dopo-la-pioggia/ Parole e Ombre 6 - Il giorno dopo la pioggia di Lorena Fiorelli - Fotografia di Carmine Frigioni

http://www.succedeoggi.it/2018/10/tanaliberatutti/ Parole e Ombre 5 - Tanaliberatutti di Paolo Vanacore - Fotografia di Sandra Paul

http://www.succedeoggi.it/2018/10/i-pesci-sono-migranti-liberi/ Parole e Ombre 4 - I pesci sono migranti liberi di Michele Caccamo - Fotografia di Giovanna Chessa

http://www.succedeoggi.it/2018/10/giustino/ Parole e Ombre 3 - Giustino di Paolo Restuccia - Fotografia di Stefano Restivo

http://www.succedeoggi.it/2018/10/caleidoscopio/ Parole e Ombre 2 - Caleidoscopio di Rocco Civitese - Fotografia di Emanuele Dini

http://www.succedeoggi.it/2018/10/a-malata/ Parole e Ombre 1 - ’A malata di Nino de Vita - Fotografia di Re Barbus

http://www.succedeoggi.it/2018/10/parole-e-ombre/ Presentazione di Parole e Ombre di Arturo Belluardo e Roberto Cavallini



Salvina parla piano di Alessandra Pizzullo - acquerello di Serena Galluzzi

date » 19-11-2018 17:25

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Salvina parla piano
di Alessandra Pizzullo



Salvina parla piano, dolce. Siamo sole. E non è un caso che siamo sole, di-venteremo amiche, dice.
“Ci addumannai al parroco il permesso di fare il film in confessione e lui mi ha detto: Salvina, devi avere fede, non stai facendo niente di male, anzi è Dio che ti ha messo su questa strada, serve per la tua missione; devi essere semplice e vedrai che tutto andrà bene. Porterai la tua testimonianza. E mi benedisse.”
Così abbiamo anche la benedizione. Sorrido, pensando che a Giannino Cor-tese, che è diventato musulmano, alla moschea di Licata hanno dato la be-nedizione per il film.
Salvina mi regala un’immaginetta di Cristo. E’ biondo con la faccia larga. Ri-preso da una prospettiva sghemba. Sull’immaginetta c’è scritto:

Tu sei il mio capolavoro.
Il mio volto risplende sul tuo volto.
Io ti ho creato a mia immagine.
Io conosco il tuo nome da sempre,
anche il numero dei tuoi capelli
prima che tu nascessi io ti conoscevo.
Ti ho chiamato e sei venuta al mondo
perché ti amo da sempre.

Vedo Gesù seduto in un biancore primordiale che conosce già il numero dei miei capelli e mi chiedo se sa anche che mio cugino Cosimo è completamen-te calvo.
Mi tornano in mente le pagine del mio libretto del catechismo, lo sgorgare in-cessante di arancio dalle pagine spesse, di raggi gialli che partono da un grande occhio, lo sgomento di un mondo parallelo, come una quarta dimen-sione che non aveva niente a che fare con il mio mondo di bambina.
Mentre Salvina guarda le pagine della sceneggiatura, sento in bocca il sapore del pane di Piana degli Albanesi intriso di vino rosso. La mia prima comunio-ne col rito ortodosso, mentre, come una piccola Santa Teresa, mi confondo nell’estasi di Santa Maria dell’Ammiraglio di Palermo e per la prima volta in vi-ta mia capisco la parola sensualità senza riconoscerla. E’ una vertigine e un calore che sale alle guance, al corpo, poi scende giù fino a profondità ancora sconosciute, quasi svengo e mi sento santa, proprio santa. Quando con mia sorella guardiamo le foto della prima comunione, ridiamo di quel vestito da sposa con il velo e la borsetta a forma di cuoricino, il cuore di Gesù. Mia so-rella ha una faccia monella e ribelle; adesso che ci penso non le ho mai chie-sto cosa pensasse quel giorno, ma io ho un’espressione casta e ispirata, con i boccoli lunghi e biondi.
“Forse sono pronta” dice Salvina con la voce che rimbomba nella palestra della scuola elementare di Favara e mi riporta al presente. Proviamo. A volte è troppo dolce e monocorde. Riproviamo.
“Com’è u sucu? Attia sempre t’è piaciuto ‘u sucu chi milinciani… u‘caciu ci u mittisti?”. La battuta della scena con Filippo e Giovanni non le viene bene.
“E’ la memoria o non è chiaro il significato?”
Salvina esita: “Tutt’e due le cose. Forse ho capito, dev’essere come il rosario, le parole sono sempre le stesse, ma si possono assistimari in maniera diver-sa. E’ come quando mi dissero: Salvina, fai una confessione, una preghiera personale. Io dissi no, poi sentii la voce del Signore che diceva vai, pigliai il microfono e parlai davanti a tutti e mi dissero: Ma come sei bella quando pre-ghi, ecco, forse devo lasciarmi andare così a recitare”.
“Vedi, Salvina, la zia Vincenza nel film non vuole sapere se il sugo è buono o no, sta solo riempiendo un vuoto, il silenzio è troppo carico di tensione fra padre e figlio e lei parla, parla e loro non le rispondono mai, è così per tutto il film, nessuno le risponde mai, la zia Vincenza è come un mobile della casa”.
Lei mi guarda bianca e piccola: “Sì, so com’è.”
Qualcuno mi ha detto che suo marito era un animale, che la picchiava. Che quando è morto per lei è stata una liberazione. Non dico nulla.
“Mio marito muriu che io avevo trentadue anni. Sempre una vita riservata ho avuto. Non talio mai la televisione, le cose brutte. Da bambina stavo in colle-gio. Una vita felice la mia. Poi, da grande, sai, sola e con due picciriddi mi sono messa a fare le pulizie nella parrocchia di Sant’Antonino e pulendo di-cevo a Gesù fra me e me Gesù, putissi puliziari ‘u me’ cori comu puliziu st’agnuni e Gesù mi sentì e allora io cominciai a confessarmi e a confessarmi fino a puliziari l’agnuni du’ me cori e ora addiventai ministro straordinario” al mio sguardo interrogativo “do la comunione agli ammalati e tremo sempre quando ho in mano il cuore di Gesù, sempre mi emoziono. E tu?”.
“Sono una che crede nella spiritualità e penso che la nostra vita sia sempre nelle nostre mani” e poi con un volo senza paracadute svio sulla religiosità di mia madre e sulla chiesa ortodossa di Piana degli Albanesi. Lei non conosce né il paese né il rito, non ne ha mai sentito parlare. Allora mi perdo in spiega-zioni e la spiritualità vira sull’architettura della chiesa e sulla storia dei turchi che invadono l’Albania e degli Albanesi che fuggono nel Sud dell’Italia e sui canti bizantini e sulla strana e affascinante lingua che parla mia madre.
Giriamo la scena con Salvina, Filippo e Giovanni: sono seduti a tavola. Salvi-na si emoziona e piange sul serio. Giovanni è intenso e Filippo rabbioso, di una rabbia interiore. L’intensità della scena emoziona tutto il set. Queste per-sone non sono attori, e vivono sulla propria pelle la storia.
“Mi sento meglio, sai, meglio assai ora ca fici a scena.”
I giorni di Salvina sono tutti uguali: si alza, lava i pavimenti, sorride, taglia il pane, scrive ai figli in carcere, uno al Pagliarelli e l’altro a Padova e va a messa, si prende cura dei nipoti e ti racconta che è felice, ma sembra una cit-tà bombardata, che aspetta un soffio per disfarsi in un fumo polveroso.
Ognuno di noi porta dentro l’anima un cane rognoso, un bambino storpio, una peste silenziosa, e quando ce li ritroviamo specchiati negli altri, fuggiamo via. Salvina invece si è presa carico del suo dolore e l’ha messo a disposizione del film.
Mi vengono in mente tutte le mie paure: Salvina che deve girare alle tre del mattino, che deve stare in camicia da notte, lei così pudica, che deve svenire alla processione…ma Salvina parla di sé e per la prima volta le piace, tutto è semplice per lei. Sta puliziannu l’agnuni d’u so’ cori.
Dopo aver girato l’ultima scena, Salvina si alza stanca, il suo viso è radioso, si tiene un fianco con la mano sinistra. Le do un bicchiere d’acqua.
“Grazie, dopo tutti i spaghetti ca mi manciai…” ride e mi abbraccia “grazie grazie. ’Un ti scurdari di mia quannu tinni vai...”.
Sento il calore umido del suo corpo. Trema.
Mentre scrivo questa pagine Salvina mi telefona, è sempre così, tutte le volte che penso a lei mi telefona, dice che mi sente, ride e non si stupisce.
“Lo sapevo che mi stavi pensando”.

Mastectomia di Mara Ribera - fotografia di Valeria Gradizzi

date » 19-11-2018 17:23

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Mastectomia
di Mara Ribera


Il giorno che mi hanno diagnosticato un carcinoma alla mammella, si disputavano gli europei di calcio. Udivo gli italiani esultare, nelle case e nei bar, per i goal degli azzurri. Due a zero per noi: la vittoria.
Io invece ero stata sconfitta. Bastonata per bene dalle cellule del mio corpo, ancora una volta. Sono quasi trent’anni che mi danno il tormento, trent’anni in cui i miei leucociti, come soldatini bianchi agli ordini della paranoia, attaccano i tessuti sani scambiandoli per il nemico. Succede quando hai una patologia autoimmune. E non esiste cura.
Però nel mio caso non si muore. Si soffre soltanto. A lungo. Fino alla fine.
Ma non si muore.
In quel caso. Quello autoimmune, intendo.
In questo invece – il cancro – ho qualche probabilità di morire. E morire male.

Quando mi hanno diagnosticato un carcinoma alla mammella ho sorriso. Il senologo che mi ha ricevuto nello studio, con le lastre della mammografia in mano, era pallido in volto, quasi giallo, le sopracciglia a V e gli angoli della bocca piegati verso il basso. Pareva un emoticon di WhatsApp. Non ne ricordo la fisionomia. Non saprei riconoscerlo se lo incontrassi. Nella mia memoria è solo una faccina virtuale.
“È brutto, signora. È brutto, questo nodulo”.
“In che senso?”
“È maligno”.
Io ho mantenuto il sorriso per tutto il tempo dell’esame citologico, tranne quei pochi secondi in cui l’emoticon in camice bianco mi ha comunicato che avrebbe dovuto bucarmi il seno due volte, perché col primo prelievo non aveva aspirato materiale abbastanza.
Gli aghi mi fanno paura.
Ho reagito bene, dicevo. Perché la notizia, come la faccia del senologo, mi sembrava virtuale. Apparteneva a una realtà parallela. Era fatta della stessa materia di cui sono fatti i selfie.
Impossibile che il tumore maligno potesse capitare a me. Io ho già dato. Io ho già sofferto. Io convivo col dolore cronico dalla giovinezza. E poi anche quell’incidente stradale, nel 2012, quasi mi amputavano un piede. E tutte le mie patologie, che una sera di tanti anni fa, a contarle insieme a un’amica prima di addormentarci – come si fa con le pecore – non finivamo più. E ridevamo. Ridevamo di gusto.
Rido sempre dei miei mali, io.
Col carcinoma però non ci riesco ancora. Datemi tempo.
Datemi un consiglio.
Datemi una traccia.
Datemi uno schiaffone per risvegliarmi da questo incubo, o una sculacciata, come a un bambino appena uscito dal ventre della madre. Fatemi nascere ancora.
Fatemi rinascere sana.

Quando il chirurgo mi ha parlato di mastectomia, mi è mancato il respiro. L’uomo che mi opererà entri pochi giorni ha una faccia che non si dimentica. La barba lunga, da ebreo ortodosso. Gli occhi vigili, intelligenti, bagnati da una goccia di timidezza. Mi ha spiegato che ci sarebbe un’alternativa al taglio della mammella, si chiama chemioterapia neoadiuvante. Ti trattano prima dell’intervento con sei cicli endovena, per tentare di ridurre il nodulo, così poi possono salvarti il capezzolo. Forse.
E forse a me la chemioterapia farebbe un bel danno. Forse il mio corpo non riuscirebbe a sostenerla. Potrei aggravarmi, potrei ritornare in quell’inferno impossibile da dimenticare, prima delle moderne terapie che mi hanno promossa al purgatorio della sopportabilità. E quel dolore di un tempo, quello che non riuscivano a controllarlo e che piuttosto preferivo la morte – volevo morire, sì, quante volte avrei voluto morire – quello mi fa più paura di un miliardo di aghi. E della mastectomia. Allora via tutto. Dai, in fondo non ci tengo tanto al mio seno. Che volete che sia, dopo mi farò la quinta misura. Finalmente sarò una maggiorata.
L’ho detto col sorriso.
L’oncologo, seduto vicino al chirurgo, ha approvato: “Meglio, perché con la chemio rischiamo d’impantanarci”.
Io in realtà è una vita che m’impantano, volevo dirgli, e alla fine nel fango ho imparato anche a muovermi bene.
Ma col cancro è meglio muoversi in fretta. E andare molto veloce, più veloce di quelle zampe di zecca che si sono arpionate alla mia carne e vogliono succhiarmi la vita. Così sono stata zitta. E ho continuato a sorridere.
Certo, la chemio potrebbe rendersi necessaria comunque, dopo. Ma anche se fosse, avendo già estirpato il mostro, i medici avrebbero il tempo di personalizzarla per limitarne gli effetti collaterali.
Più tardi, mentre mi lasciavo l’ospedale alle spalle, ripensavo alla ricostruzione. Non è mica semplice. Ti svegli dall’anestesia con un palloncino inserito sotto i muscoli pettorali che si chiama espansore. Ha una valvola, sottocutanea, e attraverso quella ogni settimana ti gonfiano con una siringa di soluzione fisiologica. Un po’ come la revisione delle gomme dell’auto, un po’ come una bambola di un sexy shop. Dopo qualche mese, quando la pelle rimasta si è dilatata abbastanza, torni sotto i ferri e ti mettono la protesi. Ma non è ancora finita, manca il capezzolo, sembri una barbie a metà. Quello arriva più tardi, ricavato dalla pelle di un’altra zona del corpo. E te lo colorano con un tatuaggio. Ma restano le cicatrici.
Giunta a casa mi sono rannicchiata sul letto. Faceva caldo. Non ero più sicura della mia decisione. Il sorriso era scomparso dalle mie labbra. E un pensiero invadente, voluminoso, denso e impossibile da allontanare, stava prendendo forma nella mia mente.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Non voglio.
Il pensiero diventava voce. Lo sentivo uscire dalla gola. Prima era flebile, quasi un lamento strozzato.
Poi si è trasformato in un urlo. Sempre più forte. Sempre più violento. Era così ingombrante che non riuscivo a espellerlo tutto. Allora si è fatto spazio nel mio stomaco, nelle mie tempie, mi ha attraversato come una lama e mi ha squassato il cuore.
Il mio corpo era tutto una negazione. Un inutile disperato rifiuto.
Perché se volere è potere, non volere è impotenza.
Non volere è una supplica.
Dopo, quando ho smesso di piangere e urlare, sono andata in bagno e mi sono guardata allo specchio. Nuda. Anche il capezzolo era triste. Sembrava sapere di essere arrivato alla fine della sua turgida esistenza. Pendeva verso il basso, incupito e scuro. Più a destra l’areola era già retratta, tipico sintomo del carcinoma. È un male che ti fa implodere, che ti risucchia dall’interno, è un buco nero nella galassia del corpo.
Mi sono stupita di quanto sono ancora bella, senza vestiti, nonostante l’età. Ho quarantanove anni. E la mia bellezza è sempre stata il mio scudo, la maschera che nascondeva la malattia, il velo che celava allo sguardo degli altri il dolore cronico. Non sembravo malata, non avevo tatuato addosso il logorio interno che mi rende inadeguata a una vita normale. Ma presto si vedrà. Presto sarò una tela su cui il cancro avrà dipinto le sue allucinate visioni.
Presto sarò un’altra donna.

Stasera c’è aria di temporale e la partita Italia-Germania.
Io non tifo. Penso alla mastectomia.
Cercando su internet ho letto che la chiamano “chirurgia demolitiva”.
Ma chi l’ha inventata questa definizione?
Come se per demolirmi fosse sufficiente tagliarmi una tetta. Come se con tutto ciò che ho vissuto, sofferto, mandato giù a forza, digerito e accettato, il bisturi potesse distruggermi.
Come se la mia indipendenza, il mio bastare a me stessa senza aggrapparmi a niente e nessuno, la mia forza ostinata, la mia passione, la mia inalterata capacità di stupirmi ogni giorno per la bellezza del mondo, temessero la mastectomia.
Demolitiva un cazzo.
I miei vicini urlano in coro, le due squadre sono arrivate ai rigori. Una sfida lunga e sofferta, questa dei quarti di finale, che sta per finire.
La mia inizia ora.

Le cose che ho di lei di Flavia Ganzenua - fotografia di Lara Garofalo

date » 19-11-2018 17:19

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Le cose che ho di lei
di Flavia Ganzenua


Ho gli occhi chiari di mia madre, il suo stesso colore, ma più distanti l’uno dall’altro, due fessure, e tenuti sempre giù, in basso, a scovare piste e tracce, a stanare passi e impronte, come affondano nel terreno e cedono via via alla stanchezza e alla resa, perché io sono un predatore.
Sono un predatore, non risparmio niente, mi cibo di tutto e dei suoi resti, metto a ferro e fuoco ogni letto, casa, ogni città in cui passo. Faccio a pezzi lettere d’amore e anniversari, il senso delle date, nomi e cognomi. Lego mia sorella, le mani dietro la schiena, la benda sugli occhi, e la spingo giù dalle scale, sono il suo plotone di esecuzione. Stacco la coda alle lucertole, le infilo in un sacchetto pieno d’acqua e le guardo finché non diventano sempre più lente e rigide e non salgono su, a galla, dei bastoncini.
Ho la stessa bocca di mia madre ma denti e labbra spaccati a furia di ribellarmi al morso.
Sono femmina, proprio come lei, ma non ci sono rospi da baciare, né trecce da sciogliere in cima alla mia torre. Il mio carnet di ballo è una lista di morti e dispersi, me e mia madre comprese – tutto in memoria del padre, andato via una notte senza portare niente con sé che gli facesse pensare a noi, non una foto, un regalo che gli avevamo fatto. Ogni cosa di lui che è rimasta è una croce. Andato via senza voltarsi, senza rispondere a nessuna domanda, insulto, supplica o implorazione. I suoi passi giù per le scale sono una raffica di mitragliatrice che risuona ancora adesso e rade al suolo tutto, il suo nome, ancora in bella vista sul citofono, è il primo dell’elenco dei disertori. Come mia madre, non faccio che tornare a quella notte, ho gli stessi anni di allora, mi ci consumo, disfo dentro, quella notte è una spiaggia di sabbia e sassi che leva via la pelle di dosso, tormenta respiro e passi e costringe ad attraversarla con dolore.
Sono una femmina che va con altre femmine, che ne mangia e si fa mangiare il cuore, so di letti e lenzuola sfatti e so di nido e di latte. Nessuna fede è mai abbastanza larga o stretta, nessuna resiste tanto a lungo da lasciare il segno, un’aureola, intorno alle mie dita. Non stringo cosce e gambe quando mi siedo, non tengo le mani composte sul grembo o lungo i fianchi quando cammino. Ci sollevo gonne, con quelle mani, allento cravatte e bottoni. Mani che danno da mangiare ai cani, li accarezzano e poi stringono il collare di un giro, perché ci si sgozzino con quel collare, a furia di guaire e tirare.
Sono scampata a una guerra, proprio come mia madre, proprio come mia madre ne porto addosso tutta la devastazione. Il mio corpo è una costellazione di fori di spurgo e punti di sutura, Orse Minori e Maggiori, stelle comete e buchi neri che ingoiano tutto ciò che gli capita a tiro. Sono medaglie al valore che esibisco e lucido con cura, chi mi spoglia può solo guardare, guardare e non toccare.
Sono una principessa, proprio come lei, ma dalla voce da maschio che gonfia la stoffa dei pantaloni, ne distende ogni sua piega, e i capelli del colore sbagliato, così rossi e accesi, rasati sempre di fresco.
Amo il padre suo marito, proprio come lo ama lei. Proprio come lo onora lei, io lo onoro. Mi siedo sulle sue ginocchia, gli afferro le mani a tentoni, mi ci aggrappo, stringo le gambe e mi strofino, su e giù - Cavalluccio arrò arrò…
Vivo nella stessa casa in cui è vissuta mia madre, compro e mangio le stesse cose che mangiava lei, indosso i suoi stessi vestiti, la sua spazzola è ancora lì, accanto allo specchio, ci sono foto di lei dappertutto, il suo nome è una parola d’ordine a cui non si può disobbedire. Apparecchio la tavola per due, la servo sempre per prima, le lascio biglietti in cucina prima di uscire, la chiamo per dirle che sono arrivata e ripartita, che non ci sarò a pranzo o a cena, mi addormento e mi risveglio nello stesso letto in cui ha cominciato a morire lei.

La spesa di Roberto Todisco fotografia di Ernesto Fiorentino

date » 19-11-2018 17:12

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La spesa
di Roberto Todisco

Quella mattina Luca ebbe chiare due cose: la prima è che voleva uccidersi, la seconda che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo da solo. Per qualche minuto, mentre dal letto ascoltava i vicini fare colazione oltre il ballatoio, questa consapevolezza lo rasserenò. Furono proprio i vicini a dargli l’idea per mettere in atto la sua risoluzione. La donna, una cinquantenne pallida che Luca chiamava Barbie Giorno dei Morti, si mise a dettare al marito la lista della spesa. Fu così che gli venne in mente il ragazzo di colore che aspettava all’ingresso del supermercato. Luca ricordò di averlo visto lì ogni giorno, appoggiato a una macchina. Sempre in silenzio, sempre sorridente.
Quella sera andò al supermercato, pochi minuti prima della chiusura. Il ragazzo era lì. Per rendere il suo piano più credibile si era fasciato una mano. Riempì il carrello meccanicamente. Arrivò alla cassa e iniziò a poggiare la spesa sul rullo. Mentre la cassiera faceva scorrere i suoi acquisti davanti a uno sguardo annoiato, contornato di eyeliner azzurro, Luca disse:
Il ragazzo lì porta la spesa a casa vero?
La cassiera si voltò.
Chi Gombà? Sembrava perplessa.
Luca alzò un poco il braccio con la mano fasciata. La cassiera inarcò le sopracciglia. Fece gesti per richiamare l’attenzione del ragazzo. Questi si mise il berretto che teneva in mano nella tasca di dietro dei pantaloni ed entrò nel supermercato. Luca lo guardò negli occhi, acquosi e arrossati. Il ragazzo sorrise, come sempre.
Arrivati a casa Luca gli chiese di poggiargli la spesa in cucina. Dentro il ragazzo sembrava a disagio, ma continuava a sorridere. Mentre adagiava con attenzione le borse, Luca sedette al tavolo, poi con un gesto invitò il ragazzo a fare altrettanto.
Devo andare. Disse Gombà.
Il supermercato a quest’ora è chiuso. Hai qualcuno a casa che ti aspetta forse? Chiese Luca. Fremeva, stupidamente non aveva calcolato un’eventualità del genere.
Il ragazzo fece segno di no con la testa.
Allora coraggio, accomodati. Ti offro la cena.
Il ragazzo si sedette, confuso. Ogni tanto provava a sorridere, ma più per darsi coraggio. Appena furono uno di fronte all’altro Luca tirò fuori dalla tasca un grosso mazzo di soldi e lo posò sul tavolo. Il ragazzo indietreggiò istintivamente, facendo fare alla sedia uno stridore fastidioso.
Troppi soldi. Balbettò.
Non sono per la spesa. Disse Luca. Sono diecimila euro e te li porti a casa, se fai un lavoro per me. Gombà continuava a scuotere la testa. Mi capisci vero? Poi da sotto al tavolo estrasse una pistola e la mise accanto alle banconote. Anche l’ultimo sorriso svanì dalle labbra del ragazzo. Non devi avere paura, provò a rassicurarlo Luca, non ho intenzione di farti del male. Anzi questo è il tuo giorno fortunato. Fai quello che ti dico di fare ed esci da quella porta con diecimila euro e la tua vita cambia da così a così.
Cosa tu vuoi? Chiese Gombà.
Mi devi sparare. Voglio che tu mi uccida. Poi esci da qui con i tuoi soldi e nessuno verrà mai a cercarti. Cambia città, fa quello che vuoi. Hai la possibilità di ripartire da capo. Fra la spesa che hai portato c’è una confezione di guanti di lattice, indossali prima di farlo.
Il ragazzo taceva, ma aveva un’espressione intensa.
Allora, siamo d’accordo? Chiese Luca. Dei due sembrava lui, ora, quello agitato.
Non ti importare vivere? Disse alla fine il ragazzo.
Luca si sentì di colpo esausto, non aveva nessuna voglia di discutere le ragioni della sua scelta.
Non devi preoccuparti di niente tu. Meno sai, meglio è. Tagliò corto, con voce roca.
Il ragazzo senza dire altro prese il portafogli dalla tasca, ne tirò fuori la fotografia di una giovane donna e la mise sul tavolo, fra la pistola e i soldi.
Facciamo patto diverso. Disse il ragazzo.
Luca era passato per quella strada tantissime volte, gettando sguardi di desiderio e ripulsa verso le ragazze che sedevano attorno ai fuochi. Nell’aria c’era odore di nafta e di pioggia. Gombà guidava la sua macchina. Si addentrarono per vicoli con cumuli di spazzatura ai bordi. Il ragazzo accostò e gli fece segno con gli occhi. Luca aprì il portadocumenti e tirò fuori la pistola. Qualche prostituta si avvicinò, ma alla vista dell’arma scapparono via. Solo una rimase. Luca riconobbe la ragazza della fotografia. La pelle nuda, scossa da un tremito, luccicava alla luce dei falò. Luca, sceso dalla macchina, sparò due colpi in aria. La ragazza infossò la testa nelle spalle. Piangeva. Luca la superò e passandole accanto le mormorò, Vai. Da una baracca di lamiera uscirono due uomini, pistole in pugno. Mentre alzava il braccio Luca vide con la coda dell’occhio la ragazza correre verso la macchina. La sentì partire. Luca sparò verso quegli uomini. Una, due, tre volte. Sentiva solo un fischio acuto nelle orecchie e la mano formicolargli. Vide quegli uomini cadere a terra. Sentì l’umido denso del sangue inondargli i vestiti. Provava solo un leggero bruciore, come se la pace gli entrasse dentro attraverso la pelle.




Di Roma e altre piogge di Fabrizio Patriarca - fotografia di Marco Marassi

date » 19-11-2018 16:54

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Di Roma e altre piogge
di Fabrizio Patriarca

E non ricordavi nulla, la pioggia era soltanto scroscio di tamerici salmastre e rigagnolo su volti silvani, memoria o coincidenza di pose decadenti, con qualche goccia petrarchesca, innocui temporali marinisti, e una pozza di storie tremende, anche tremendissime, sulle insidie dei rovesci, del fortunale infausto, che adesso cominciavano con un passante travolto dalla camionetta impazzita – mai fidarsi del selciato: austerità, aridità! – il passante con l'ombrello come un gomitolo di spire, un personaggio alla Raymond Queneau, forse una delle mille vite di Jacques L'Aumone, magari era proprio Roland Barthes, schiantato dal furgoncino assassino, fine-della-vita-fine-del-desiderio, e non sai se piovesse davanti al Collège de France, di sicuro non ricordi l'ora esatta, ma che morte sottile! Senz’altro stava per piovere, e là terminava la parabola strutturalista, dove cominciava uno strambo mito della leggerezza, poi qualcuno pioggia o non pioggia ci avrebbe ricamato sopra una mascheroneide dell'effimero, una predica tamburellante, perché bastava aggiungere un caffettuccio con chiacchiere, spostare la vicenda collettiva tra i viottoli meno flaneuristici dell'Urbe, collocare quattro guitti all'aperto di un teatrino et voilà era servito il sogno vitalista dell'estate romana, l'antidoto a certa grandeur olezzante di maldigerito nietzscheanesimo: l'estate dell'effimero, l'effimero usava dire realizzato, mandato giù a furia di sentenze, la pioggia dei referti, dei conti, dei dispacci comunali, brigate di marrani, bargelli disorientati dal palpito del jazz, aspiranti sindaci con referenze fondiarie, aspiranti assessori con referenze cabarettistiche, ma soprattutto aspiranti, nel brago postlatino. Urbe còndita e condìta, nel frattempo sotto il velo d'acqua mulinante a prora degli speroni aureliani – transito di checche usava dire sbiadite, mercé di libagioni per pennaioli e pennisti e sandripenna dell'ultima ora, quelli protervi e senza un briciolo di stile, comunque cazzi loro – l'animale sommerso drizzava le pinne, gonfiava le sue branchie colossali, e tu leggiucchiavi di straforo nelle antologie di Vigolo o Muscetta: un Belli esorbitante (Quattro angioloni co' le tromme 'n bocca / Se metteranno uno pe' cantone / A ssonà: poi co' tanto de vocione / Cominceranno a dì: "Fôra a chi ttocca"), il Belli der giudizzio, perché dentro la palingesi universale ci cade sempre bene l'ouverture temporalesca (come peraltro ti dimostrava il Montale d'Arsenio, coi turbini, la polvere, i mulinelli e i cavalli incappucciati e tutte le altre sagome sdrucciole che apparecchiavano apocalissi fradicie, o bagnaticce, o insomma: inzaccherate quel giusto). Agli altri bastava un Trilussa preso di scorcio, un trilussino facile-crepuscolare, come certe logore stampette in casa della bisnonna (e il suo cuore tenerello, assieme al pentolino d'ordinanza che bullicava sul fuoco – riso e lenticchie, i capisaldi, aut fittissima pasta e fagioli): Su l'archetto ar cantone de la piazza / ar posto der lampione che c'è adesso, / ce stava un Cristo e un Angelo de gesso / che reggeva un lumino in una tazza. / Più c'era un quadro, indove una regazza / veniva libberata da un ossesso: / ricordo de un miracolo successo / sbiadito da la pioggia e da la guazza. Poi venne la pioggia dei viaggi, pochi all'inizio ma belli da far tremare, e di quel bacio alla fermata del 671, quello che t'avrebbe saldato alla memoria i caduti della Montagnola, perché la piazza era l’omonima, con la pasticceria e il föhn rovente dei krapfen sulle tielle, e avevate litigato come due stronzi: in te batteva una grandine di rimorsi, ma lei ti aveva raggiunto in bicicletta e quando eri sceso l'avevi trovata là, sotto la pioggia, col fiatone e i capelli appiccicati alle tempie, arrotolati (sempre dalla pioggia) su quegli zigomi impercettibili, e lì ti aveva guardato coi suoi occhi cilestri di estenuata fanciulla moraviana, gli occhi di una malata uscita da certe pagine cupe, cupissime dei Racconti della Pescara, e tu allora avevi lasciato che ogni suggestione fosse risucchiata dal suo bacio incattivito, perché era come se dicesse: via, lasciamo stare, ché tanto finiremo per annegare in tutta questa pioggia, ed era il millenovecentottantanove, non l'altro ieri, avevi diciassette anni, la pioggia fino a quel giorno ti era sempre rimasta indifferente. Intanto, come l'ultimo parvenu arrivato tardi a cena, con una scusa colossale dietro al sorriso smaltato, scorticavi i romanzi del tuo Robbe-Grillet per non capirci quasi niente: la pioggia toccava le persiane e infastidiva tua madre, le cui predilezioni letterarie sono rimaste per te un mistero impenetrabile, di fatto per molti anni ti è sembrato che leggesse solamente quell'unico romanzo di Liala, Il pianoro delle ginestre – il tuo animo leopardiano non sapeva se sdegnarsi – ma ecco: due giorni prima di morire, fissando tuo padre che usciva di casa col suo completo di lino al cospetto di un improbabile acquazzone di settembre, ha sfoderato all'improvviso due versi di Pascoli: Oh! Valentino vestito di nuovo, / come le brocche dei biancospini, e tu subito a chiederti quale nubifragio di romanzetti d'appendice avesse sommerso quella chincaglieria scolastica, e quale soprattutto il miracolo che l'aveva testardamente riportata a galla: tuo padre molto abbronzato, forse un po' troppo date le circostanze, un Paul Newmann imbolsito nella zona ventrale dalla consuetudine coi ristorantini prediletti – l'immancabile flûte di Foss Marai, un paio d’astici alla catalana, la carampana sterminatrice di ostriche qualche tavolo più in là che fruga nella tritumea del ghiaccio (gira voce che sia dedita allo strozzinaggio) e t'impartisce soave la sua mollezza di parrucca allo spiedo. Vorresti mandarla usa dire affanculo invece decidi di scrutarla di traverso, mimetizzando l'occhiata dietro un'ascesa di bollicine, e il tuo delirio sale agli astri ormai. Montale, Mediterraneo. Ma adesso piegati, fa' il favore, ritorna a certi paragrafi insistentemente piovosi o pluvialmente insistiti dei gialli da quattro soldi che macinavi da ragazzino, ruderi di città americane immerse nel piovasco perenne, le mura usava dire sbreccate e dietro ogni angolo l'emissario della Funzione Negativa pronto a massaggiarti le gengive con un cric, torva metempsicosi dei bulli che affollavano le tue peraltro eminentissime salesianissime privatissime scuole medie e superiori. La pioggia, evocata solum per onomatopea, chiudeva il poemetto di T.S. Eliot che citavi alla tua ragazza di allora – shanti shanti shanti, come la divinità indiana della pace – che per avventura o forse per un sferica coincidenza si chiamava Irene. La pioggia sopra il tuo presente, guarda: allaga la scrivania. La spruzzata dei maledetti relativi che occorrono per imporre al paragrafo un ritmo scrosciante quando provi a salvare un pezzo di memoria: come il ritratto di Azzurra che avevi fatto fare a Place du Tertre, il carboncino che sfrigolava sulla carta ruvida seguendo la piega dei capelli e sembrava un giro snervante di compasso (maledetto John Donne, che si è fregato le metafore migliori) ma quella snervata era lei, perché non ne poteva più, nonostante il bacio alla Montagnola: il ritratto era scivolato in una cartelletta, e dalla cartelletta a una borsa di pelle, quindi in un cassetto al piano seminterrato nella casa dei tuoi, infine dentro una grossa busta marrone in garage, tra le radiografie di fratture infantili e i referti oncologici dei tuoi antenati. Un giorno la pioggia ha allagato tutto, dalle rade dell’Infernetto fino ai calli di Vitinia, e quando ti sei messo a cercare hai ripescato in quella melma un fogliaccio stinto e stracciato. Allora finalmente, quindici anni dopo la vostra notte in treno – alla Gare de Lyon eravate scesi indolenziti, tenendovi per mano sotto una pioggia fatta di spilli – allora e solo allora hai ricordato veramente il suo viso.

Il mio papà di Marco Rinaldi - fotografia di Zhanna Stankovych

date » 19-11-2018 17:04

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IL MIO PAPA’
di Marco Rinaldi


Il mio papà fa tante puzzette perché c’ha i diverticoli, che è lì che l’aria si gonfia e poi certe volte diventa puzzolente, che è per quello che si chiamano “le puzzette”.
Lui le fa di due tipi, quelle fredde e quelle calde, quelle calde puzzano, quelle fredde no, e lui ce lo dice prima: “tranquilli, questa è fredda”, oppure “attenti, ne arriva una calda!”, anche perché quelle calde fanno poco rumore; la mamma gli fa gli occhi da pazza e va di corsa a aprire la finestra pure se fa freddo.
Il mio papà le puzzette le deve fare per forza sennò gli scoppiano i diverticoli e muore, e io non voglio che muore adesso, perché sono troppo piccolo e quando divento grande lui non c’è. Lui le puzzette le fa solo con me, la mamma e mia sorella. Cioè, le fa pure quando c’è la nonna, ma lei non conta: quelle fredde non le sente perché è sorda, e per quelle calde il papà dà la colpa a lei, che ci crede e dice “scusate tanto”; io, mio padre e mia sorella ci ridiamo, ma a me mi dispiace pure un po’ perché lei si vergogna. Quando ci sono gli altri, invece, il papà non le fa, le puzzette, e allora io lo guardo per vedere se gli viene la faccia come al nonno quando stava per morire, che io neanche lo sapevo, che stava per morire. Però meno male che non le fa, perché certe di quelle calde sono peggio delle mie, o di quelle di quel ciccione di Giulio, che quello non lo batte nessuno. A me le migliori mi vengono la sera a letto quando non faccio la cacca da due giorni, e mi dispiace che non c’è quel ciccione di Giulio, perché con lui non mi vengono mai così puzzolenti.
Mia sorella le fa, ma piccole; la mamma no, perché non c’ha i diverticoli.

Il mio papà fa anche i ruttini, e anche quelli li deve fare per forza perché c’ha lo stomaco debole.
Il mio papà fa due tipi di ruttini, quelli secchi e quelli liquidi, che sarebbe quando insieme all’aria viene su pure un po’ d’acqua. Quelli con l’acqua, se non fossero del mio papà mi farebbero schifo; certe volte però mi dimentico che è lui e allora mi fanno schifo lo stesso.
I ruttini con la bocca aperta, secchi o liquidi, li fa solo quando siamo noi di famiglia, anche se c’è la nonna, che tanto lei è sorda. Quando ci sono gli altri, i ruttini li fa lo stesso, ma tiene la bocca chiusa e allunga il collo come una tartaruga. Questi gli vengono un po’ secchi e un po’ liquidi, e durano parecchio; lui pensa che siccome tiene la bocca chiusa gli altri non se ne accorgono, ma invece si sente, e io mi vergogno che lo guardano tutti.
Io i ruttini a tavola non li posso fare, perché la mamma mi fa gli occhi da pazza, ma certe volte mi scappano; invece mi piace un sacco farli in camera con quel ciccione di Giulio che sarà pure antipatico, ma con quella panciona che c’ha riesce a dire “mavattenaffanculo” oppure “malimortaccivostra” con un ruttino solo. Io per ora riesco a dire solo “mamma” oppure “papà”. Mia sorella fa solo ruttini da femmina. La mamma invece si mette la mano davanti alla bocca e fa stsss.

Il mio papà si mette le dita nel naso anche se la mamma gli fa gli occhi da pazza. Di solito, nel naso ci mette il mignolo, ma se serve va su col pollice, tanto lui c’ha il naso bello largo e se lo può permettere. Poi fa rotolare la pallina tra pollice e indice finché non è secca che cade da sola; certe volte però gli deve dare la schicchera. Le palline che fa il mio papà sono belle grosse, a me mi piacerebbe farle grosse come lui, e allora le faccio crescere nel naso, ma poi non respiro più, e allora me le devo togliere prima che diventano grandi come le sue. Una volta ce n’avevo una così grossa che no riuscivo neanche a infilare il dito per tirarla fuori, e alla fine la mamma me l’ha dovuta cavare con l’uncinetto; io la volevo tenere per fare una pallina grande come quelle del papà, ma la mamma me l’ha buttata via. Le mamme sono così, che certe cose non le capiscono. Il papà me l’avrebbe data. Certe volte però le palline che ha nel naso il mio papà, quando le tira fuori si portano dietro un po’ di bavetta, e allora deve metterle nel fazzoletto e non ci può più fare le palline. O forse la riprende dopo, non lo so.
Mia sorella, da quando c’ha le tette si soffia il naso prima di avere le palline; la mamma, come tutte le mamme, c’ha il naso asciutto, a parte d’inverno che c’ha il moccio del raffreddore, che quello ce l’hanno tutti ma mica ci si fanno le palline.

Al mio papà quando stiamo al mare gli esce sempre una palla dalla retina dei calzoncini da bagno. Una sola, sempre la stessa, la sinistra. La mamma gli fa gli occhi da pazza e allora lui se la rimette dentro, ma poi gli esce un’altra volta. Sempre a sinistra. Quando fa la doccia, il mio papà c’ha le palle marroni e pelose, invece, quando gli esce dalla retina la sinistra è rosa e lucida che sembra una caramella alla fragola di quelle grandi che mi porta quando va a Torino. Ai papà degli amichetti miei le palle non gli si vedono, e infatti quand’ero piccolo pensavo che agli uomini grandi che non erano il mio papà le palle gliele toglievano come si fa ai gatti ché quando le femmine c’hanno l’amore scappano o fanno la pipì che puzza. Allora, una volta ho fatto venire certi amichetti miei a vedere la palla del mio papà, la sinistra, e loro ridevano come matti che il mio papà ce n’aveva una sola, di palla, e che era moscia e era per quello che gli usciva dalla retina.
A me le palle non mi escono perché al mare c’ho gli slip che non c’hanno la retina… o forse perché le mie palle sono dure, non so. Mia sorella e mia madre, invece… vabbè, loro sono femmine e le palle, una specie di palle, ce l’hanno dentro.




Il lavoro degli altri di Piero Fittipaldi - fotografia di Marco Pasqua

date » 19-11-2018 16:59

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IL LAVORO DEGLI ALTRI
di Piero Fittipaldi


Mario la mattina dorme. Sua moglie Giovanna no. Lei si alza di malavoglia dal letto, struscia le ciabattine sino in cucina e, palpebre ancora appiccicose di sonno, armeggia tra le stoviglie in cerca della caffettiera. Un leggero fremito al contatto di una superficie fredda e spigolosa la avverte che ha tra le mani ciò che cerca. La riempie di acqua e miscela con gesti che cominciano a farsi pian piano più lucidi, la posiziona sul fuoco. Prima che il caffè cominci a gorgogliare, Giovanna torna prima in camera da letto dove prende i vestiti - anche la canotta di lana che oggi fa freddo - poi in cucina, dove si ustiona i pensieri col caffè bollente. Quindi punta dritta al bagno. Lavata e vestita abbaia un saluto al marito. Mario ha forse un ricordo lontano di giorni in cui quel latrato era sostituito da un bacio leggero, biascica qualcosa di incomprensibile di rimando e si rannicchia nel bozzolo tiepido delle coperte.

Giovanna in ascensore incrocia Giuseppe, pensa “che bell’uomo” ed il timido buongiorno che si scambiano la fa arrossire d’imbarazzo. Lei crede faccia l’architetto, in verità dipinge e si firma Josè. E’ ricco di famiglia e i soldi non gli mancano, ma è convinto che un giorno le sue tele saranno quotate in vere gallerie d’arte e non in spazi autogestiti. Mentre le porte dell’ascensore si aprono Giuseppe-Josè immagina l’attraente semplicità di questa donna impressa su tela e rovista nel vocabolario mentale in cerca delle parole meno assurde per chiederle di posare per lui.
Ne trova un paio quando le porte scorrevoli hanno oramai esaurito la propria corsa e la donna che lo ha fatto tornare timido come un adolescente sta per uscirne.
“Dev’essere difficile”, le dice.
Giovanna si ferma. Ha un attimo di indugio, poi, senza girarsi - “cosa?”.
“Gli occhi. I tuoi occhi. Io dipingo e mi chiedevo quanto debba essere difficile riprodurli in un ritratto”.
La risposta che le giunge alle spalle la stordisce, nelle corde di quella voce esitante Giovanna legge un invito. Un invito bagnato in un inconfondibile vena di desiderio. A una donna certe cose non puoi nasconderle.
Giovanna si gira, vuole guardare il viso di quest’uomo, deve essere sicura di quello che sta accadendo. Lentamente, ad appena un passo di distanza, gli sguardi si incrociano e lei capisce. È lusingata come non lo era da tempo ed emozionata come forse non è stata mai. “Non so se riuscirò a tenerli immobili a lungo”. È l’unica cosa che riesce a dire con il filo di voce che ancora le rimane.

La donna in disparte che osserva la scena senza essere vista si muove solo quando vede i due incamminarsi insieme. Non era tanto vicina da ascoltare i dialoghi, ma anche lei ha capito tutto. Un giorno le capiterà qualcosa di simile, ne è certa. La vita glielo deve.
Lei vorrebbe farsi chiamare con il suo vero nome, Guendalina, ma i suoi clienti la chiamano soltanto Lina. Loro la accolgono in casa propria e lei li accoglie dentro di sé. A sua madre e sua figlia al di là dell’oceano racconta che ha trovato impiego come assistente sociale, e in fondo non crede di essersi allontanata troppo dalla verità. Il primo della giornata si chiama Mario e si è raccomandato che arrivasse il prima possibile perché questa settimana ha il turno serale e dopo vuole dormire.

Un cuore inciso di Sandro Dieli - fotografia di Martino Pirella

date » 19-11-2018 17:27

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Un cuore inciso
di Sandro Dieli

Paolo e Maurizio non si conoscevano e mai avrebbero immaginato il loro incontro nelle condizioni in cui si svolse realmente. Paolo e Maurizio camminavano, inciampavano sui loro corpi e si avviavano verso l’incontro che avrebbe deciso il futuro.

Paolo amava gli occhi delle donne. Aveva imparato a cogliere le infinite sfumature di densità con cui le ragazze si guardavano intorno, diversità che segnavano destini e passioni addolorate, tremori e fiati interrotti, vita o morte. Vita o morte, così gli sembrava. Perché gli occhi delle donne erano pozzi in cui tanti suoi amici si erano lanciati a braccia aperte, volando e planando sul fondo melmoso. Alcuni erano stati restituiti alla luce del sole, altri avevano incautamente offerto tutto il loro peso alla superficie fangosa che li aveva inghiottiti per sempre. Sugli occhi delle donne bisogna camminare leggeri.
Paolo conobbe Maria ad una festa, in una notte senza luna. Sulla spiaggia non si vedeva nulla e Paolo si affidò ai suoni, alle parole lanciate da Maria assieme all’alito, come sassolini che colpiscono l’acqua in un apatico giorno estivo. Tutto accadde senza pensarci, nel buio della sera, ad occhi chiusi. Si bacia ad occhi chiusi, gustando l’alito e i sospiri che lo sostengono.
La vide il giorno dopo. Passeggiarono sul lungomare, quasi senza sfiorarsi. Paolo si domandava a chi somigliasse quella ragazza che gli camminava accanto. Possedeva il vuoto dell’estranea e la pienezza della persona conosciuta da sempre. Dopo un po’ le mani si afferrarono e non osarono spostarsi da quella stretta, come se questo potesse arrecare all’altro un disturbo insopportabile. Lì vicino vi era una fila di macchine posteggiate. Quasi tutti i musi delle auto erano rivolti verso il centro della strada stracolma di gente estiva, i finestrini aperti all’aria e al mondo. Nell’abitacolo occhi affamati di ragazzi che scrutano le donne, ridono e fumano. Solo alcune auto avevano il muso verso il mare, contenevano coppie di ragazzi che giocavano all’amore, occhi appagati che galleggiano sull’orizzonte. Il mare è pieno di ricordi, appartiene al passato e al futuro degli amanti. Tutti gli altri ragazzi fumano febbricitanti dentro le auto, mangiano le donne che passeggiano in gruppo e da cui vorrebbero baci e abbracci. Con le quali vorrebbero guardare il mare. Paolo e Maria si fermarono e lasciarono alle loro spalle il flusso di persone che vociavano, scavalcarono il muretto per sedersi sugli scogli, assumendo la prospettiva degli amanti, quella dove il mare è passato e futuro. Paolo si accorse allora che gli occhi di Maria somigliavano a quelli di sua madre. Sulla superficie di quei pozzi immateriali si riflettevano passato e futuro, metallo prezioso fuso, colore del mare. Paolo raccolse un legno dilavato ed estrasse un coltellino dalla tasca per incidere la parola “amore”.

Maurizio fumava a boccate profonde infiammando la cenere. Era seduto su un motorino di un amico col quale rideva sguaiatamente. I due cercavano di attaccare bottone con le ragazze che passeggiavano in gruppo, pur sapendo che mai avrebbero risposto ai loro inviti. Queste si stringevano tra loro come il mantice di una fisarmonica e lanciavano stridii appoggiandosi l’una all’altra. Maurizio le vedeva allontanarsi mentre si allargavano inalando l’aria della sera, una di loro a sbirciare dietro, con i sederi buffi e oscillanti. Da alcuni giorni i due amici avevano dovuto fare a meno della rassicurante protezione della macchina di Antonio. Adesso era posteggiata con il muso verso il mare e Antonio baciava Lucia. Maurizio li scorgeva appena nella penombra dell’auto e si sentiva tradito. Prendeva allora un’altra sigaretta attaccandosi alla bottiglia di birra che si svuotava in fretta, proprio come il suo cuore. Sarebbe bastato poco per sentirsi vivo. Sarebbe bastata una ragazza accanto a lui, una qualsiasi. C’era solo l’amico che gli ammiccava guardando una comitiva di ragazze. Allargava la bocca con intenzione e rideva sguaiato per buttare allo scirocco i pensieri cattivi.

Paolo voleva fare il militare e diventare ufficiale. Il padre aveva un piccolo negozio di ferramenta e non si poteva capacitare di questo desiderio del figlio. Dopo il diploma avrebbe potuto lavorare con lui e si sarebbe assicurato un avvenire. Paolo gli aveva urlato in faccia che non gliene fregava nulla del negozio e il padre lo aveva schiaffeggiato. Da quel giorno non si erano parlati più e si guardavano con gli occhi cattivi di chi si odia.
Paolo stava raccontando a Maria che voleva diventare ufficiale e notò negli occhi della ragazza un guizzo di orgoglio, come se lei potesse già vedersi sposata e ammirata. Gli occhi delle donne determinano il destino degli uomini, pensò Paolo. La baciò con passione e volle sentire la consistenza della pelle, per tenerne poi la memoria quanto più a lungo possibile. Il calore della moglie di un soldato. Maria si vide proiettata in un futuro luminosissimo, tanto da apparire sbiadito e privo di contorni. Era Paolo quella figura sfavillante che le sfiorava il viso? Decise di sì e riaprì gli occhi per confermare la consistenza del suo amante. Paolo la guardò da quella piccola distanza e suggellò il patto secondo cui entrambi avrebbero riempito lo spessore dei sogni. Gli occhi di Maria somigliarono ancora di più, se questo fosse stato possibile, a quelli della madre e nell’abbraccio si sentì protetto, un soldato al ritorno dalla guerra.

Maurizio era impaurito dalle donne e le guardava sempre con occhi di sfida. Aveva perciò adottato una semplice forma di difesa: aspettava che si voltassero per scrutarne i sederi. Maurizio si sentiva solo. Si incamminò sul lungomare senza una meta precisa. Maurizio odiava la felicità altrui, odiava quell’estate così vuota, odiava i gelati, odiava Antonio e la sua ragazza. Aveva lo stesso sguardo di sfida che riservava alle donne, ma stavolta era una sfida alla vita. Erano occhi con la morte dentro.

Paolo avrebbe fatto qualsiasi cosa per Maria, la moglie del soldato. I mille baci in riva al mare le avevano asciugato la bocca e adesso aveva sete. Paolo l’aiutò ad alzarsi dagli scogli puntuti che avevano lasciato dei piccoli segni sui pantaloni fiorati. Avrebbero potuto scavalcare subito il muretto, ma decisero di camminare alcuni metri sugli scogli che misero a rischio l’equilibrio. Se avessero deciso di saltare subito il muretto, il destino sarebbe scivolato accanto senza colpirli, tutto sarebbe stato diverso. Ma non potevano fare altrimenti, gli scogli erano un piccolo sentiero di guerra, una di quelle prove da cui si esce uniti.
Fu un piccolo ritardo che permise a Maurizio di raggiungere la coppia proprio mentre, sorridente, conquistava il marciapiede. La sua passeggiata senza meta s’interruppe davanti ai due ragazzi che sembravano volergli ricordare quanto ingiusta fosse la vita con lui. Maurizio li sentì nemici e li osservò con lo stesso sguardo di sfida che riservava alle donne. Paolo vide quegli occhi sconosciuti e forse vi riconobbe qualcosa. Gli occhi del padre? Maurizio dovette percorrere un piccolo semicerchio per evitare la coppia e venne attratto dai fiori stampati sui pantaloni di Maria. La sfida si trasformò in un ghigno. Paolo pensò che difendere Maria da quello sguardo fosse come difendere tutte le donne del mondo. Maurizio vide in Maria tutte le donne innamorate di altri uomini, tutte le donne che lo avevano lasciato solo e col cuore in pezzi. Poi volle vedere quale uomo gli avesse rubato l’amore, e lanciò un lungo sguardo di sfida a Paolo. Fu un solo gesto. Il soldato brandì il coltellino con cui aveva inciso la parola “amore” sul legno dilavato dal mare e per lo stesso amore che provava per Maria, colpì al cuore Maurizio. Gli tolse la sfida dagli occhi e lo lasciò cadere sul marciapiede. Riprese a camminare e portò la ragazza al bar perché potesse dissetarsi.

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